Quella perversione nazionalista che tiene sott'assedio la Macedonia
Da anni c’è uno scontro onomastico tra Atene e Skopje. Ora ci sono anche piazze piene, e uno spostamento di statue
Milano. Nessuno si è mai accanito per ventiquattro anni intorno a una sola parola. Neanche il più insoddisfatto dei poeti, impegnato a limare all’infinito un verso; neanche il più profondo dei filosofi, rapito da un’idea che sfugge e per la quale non trova una definizione; neanche il più testardo dei glottologi, deciso a trovare la radice di un vocabolo senza parentele. Nessuno salvo Matthew Nimetz. Questo sventurato signore, diplomatico statunitense di lungo corso e già sottosegretario di Stato con delega alla Sicurezza internazionale dell’Amministrazione Carter, da quasi un quarto di secolo cerca di risolvere un’incredibile e incancrenita guerra onomastica. Fin dai tempi della disputa teologica intorno al “filioque” che, sempre in quella zona del mondo, contribuì nel 1054 alla divisione tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, non si era più visto uno scontro altrettanto aspro intorno a una parola. E questa parola è: “Macedonia”. Matthew Nimetz se ne occupa dal 1994: “Probabilmente ho riflettuto più di chiunque altro su questo problema, ma devo deludere tutti quelli che pensano che sia stato il mio lavoro a tempo pieno”, ha detto il diplomatico in un’intervista alla Bbc, tranquillizzando chi temeva per lui un esaurimento nervoso. E proprio in questi giorni, dopo che il premier greco Alexis Tsipras e il suo collega macedone Zoran Zaev si sono incontrati a margine del World Economic Forum di Davos, il paziente Nimetz, nelle vesti di rappresentante speciale dell’Onu per la disputa sul nome “Macedonia”, sta facendo la spola tra Skopje e Atene, convinto della possibilità di sbloccare la situazione.
Il “problema macedone” nasce già nel 1991. Dopo aver dichiarato l’indipendenza dalla Jugoslavia, il nuovo stato con capitale Skopje, erede della “Repubblica socialista di Macedonia”, cioè di uno dei sei soggetti che costituivano lo stato jugoslavo, avrebbe voluto chiamarsi ufficialmente “Repubblica di Macedonia” o, più sbrigativamente, “Macedonia” e avrebbe voluto avere sulla propria bandiera il cosiddetto “sole di Verghina”, un simbolo trovato dagli archeologi nell’omonima cittadina greca e riconducibile all’antico Regno macedone, quello di Filippo II e Alessandro Magno. Neanche per sogno. I greci, timorosi che questo arrembante macedonismo dei vicini slavi preannunciasse rivendicazioni territoriali ai danni della Macedonia greca (quella Macedonia che i greci considerano l’unica Macedonia possibile e cioè la grande regione di cui è capoluogo Salonicco), pronunciarono il loro “niet”. Atene fece sponda sugli stati amici, costrinse i macedoni a cambiare bandiera e a essere riconosciuti internazionalmente, ad esempio all’Onu, come FYROM, ovvero “Former Yugoslavian Republic of Macedonia”, ovvero ancora “Ex repubblica jugoslava di Macedonia”. Da un lato, il timore greco era in parte giustificato, visto che i chiari di luna nazionalisti sono uno dei più noti brand balcanici. Dall’altro lato, si trattava di una paura assurda, dal momento che la Macedonia è un piccolo stato di due milioni di abitanti, un quarto dei quali di etnia e madrelingua schipetara, ed è demograficamente così poco compatto da riconoscere ben sei lingue minoritarie: albanese, appunto, ma anche turco, romanì, serbo, bosgnacco e arumeno, lingua romanza balcanica, quest’ultima, imparentata con il rumeno. Non una grande minaccia, insomma. Ma il nazionalismo greco, come tutti i nazionalismi, non è molto permeabile al dubbio. Da parte sua, la Macedonia non ha rinunciato a tenere il punto, ha continuato ad autodefinirsi “Macedonia” e ha dedicato ad Alessandro Magno sia un’importante autostrada sia l’aeroporto di Skopje, fornendo combustibile al già accesissimo nazionalismo ellenico che difende l’esclusiva grecità di Alessandro.
Le conseguenze dello scontro onomastico tra Atene e Skopje non si sono risolte soltanto in un appassionante passatempo per mister Nimetz, ma in un grave danno per la Grecia (che, nelle difficili strettoie della sua situazione economica, avrebbe bisogno di vicini amici e non di belligeranze sempiterne lungo i propri confini, su cui già gravano decenni di rapporti aspri con la Turchia) e soprattutto in un gravissimo danno per la Macedonia: Skopje, a causa di un doppio veto greco, non ha potuto neppure iniziare un percorso verso l’adesione all’Unione europea e alla Nato.
E come si sono posti i macedoni di fronte la nazionalismo greco? A nazionalismo, nazionalismo e mezzo, specie durante il lungo governo (2006-2016) di Nikola Gruevski e del suo partito di centrodestra Vmro-Dpmne – agile acronimo che nasconde la denominazione, dal retrogusto vintage, di Organizzazione rivoluzionaria interna macedone – Partito democratico per l’unità nazionale macedone. In questi dieci anni Gruevski ha promosso un’aggressiva (e costosissima) politica di affermazione e parziale reinvenzione dell’identità nazionale. Tale politica ha trovato la sua esaltazione nel programma Skopje 2014 che ha trasformato il centro della capitale, disseminandolo di goffi edifici “in stile”, di archi di trionfo, di improbabili tempietti, di dettagli pompier e di decine di statue, perlopiù di dimensioni ciclopiche. Questi interventi sono andati a costituire un involontario capolavoro: grazie a questo restyling Skopje è diventata, senza timore di concorrenza, il più interessante esempio di kitsch urbano dell’intera Europa. Questo progetto dalla forte impronta nazionalistica ha messo un dito nell’occhio ai greci e un altro nell’occhio della grande minoranza albanese che vive nel paese. I risultati di Skopje 2014, con il loro gigantismo, riempiono di orgoglio una parte dei macedoni e riempiono invece di vergogna molti altri, preoccupati soprattutto da questioni estetiche e di finanza pubblica. Ma il vero problema è legato alle due statue colossali attorno a cui si sviluppa il disordinatissimo nuovo impianto urbanistico della capitale: realizzate con grande perizia in Italia, dalla fonderia Guastini di Gambellara e dalla fonderia Marinelli di Firenze, i due monumenti sono intitolati “Guerriero” e “Guerriero a cavallo”, ma tutti capiscono che si tratta di Filippo II e di Alessandro Magno. Per i greci è l’ennesimo ed estremo insulto, derivante da quella che percepiscono come un’appropriazione indebita da parte di un popolo slavo di quello che ritengono essere il loro bene più prezioso: l’antica cultura ellenica, anche nella sua declinazione macedone.
Pare che il governo di centrosinistra di Skopje, guidato da qualche mese dal premier Zoran Zaev, abbia lasciato intendere che, per lubrificare il negoziato, sarebbe disposto a considerare uno spostamento delle statue in un luogo meno visibile, ma molti cittadini macedoni non approverebbero tale decisione.
I greci, intanto, hanno già cominciato a confermare preventivamente la loro contrarietà a concessioni onomastiche alla Macedonia. Il 21 gennaio scorso molte decine di migliaia di persone sono scese in piazza a Salonicco e per il 4 febbraio è prevista una manifestazione ancora più affollata ad Atene. E, corroborato da sondaggi chiari, il junior partner di governo di Tsipras, Panos Kammenos, che guida i Greci indipendenti, un piccolo partito della destra nazionalista, ha parlato della possibilità di promuovere un referendum con cui i cittadini greci possano approvare o respingere eventuali accordi tra Atene e Skopje. Nimetz non si scompone e rilancia le sue cinque proposte: “Repubblica della Nuova Macedonia”, “Repubblica della Macedonia del Nord”, “Repubblica della Macedonia superiore”, “Repubblica di Macedonia (Skopje)”, “Repubblica della Macedonia sul Vardar” (il nome si riferisce al fiume che attraversa il paese, ndr).
“Credo veramente che sia possibile ottenere una ricomposizione delle differenze, considerate le nuove evoluzioni che sono in atto in questo momento (…). Credo che possiamo procedere celermente nel tentativo di raggiungere un risultato positivo nel giro di pochi mesi o forse anche prima”, ha detto il mediatore americano al quotidiano greco Ekathimerini. E il giro di frase è abbastanza contorto da diluire sensibilmente quell’ottimismo che Nimetz vorrebbe trasmettere.