Amica Teheran
Niente #MeToo per le ragazze iraniane che strappano il velo. Alle nostre femministe interessa di più spingere per la caduta dei Weinstein. E indignarsi per l’iniqua tassa sugli assorbenti
Sono arrivate a centinaia di migliaia. Hanno attraversato gli Stati Uniti e il Canada per marciare e affermare il loro posto nella società, non più molestate e ai margini, ma libere e al centro. La marcia di quest’anno per i women’s rights si è svolta tutta all’insegna del movimento #MeToo.
Tuttavia, il movimento delle donne sembra essere diventato una pedina nelle mani di femministe liberal “consapevoli della diversità” e che hanno deciso di rispettare i misogini nel resto del mondo semplicemente perché il loro antiamericanismo e antioccidentalismo sono diventati una parte intrinseca del movimento dei “diritti delle donne”. Alcune femministe hanno fatto proprio il messaggio che Linda Sarsour, islamista americano-palestinese col velo che una volta ha twittato di voler “togliere la vagina” ad Ayaan Hirsi Ali, dissidente critica dell’islam che ha subito la mutilazione genitale. Alla marcia del 2018, l’egoismo, l’arroganza e l’ignoranza neofemminista potevano essere notate con generosa abbondanza.
Le ragazze iraniane in questi giorni hanno sventolato una bandiera bianca per protestare contro l’obbligo del velo da parte del regime dei mullah. Ma la loro non era affatto una resa. Quella è stata decisa dalle femministe.
Nel frattempo, la ragazza iraniana che aveva protestato contro il codice forzato dell’hijab veniva dispersa e arrestata. Dalla rivoluzione iraniana del 1979, le donne iraniane sono state costrette a coprirsi i capelli secondo la legge islamica della “modestia” e ad indossare abiti fino al ginocchio. La donna che si è tolta il velo e lo ha sventolato è stata in seguito identificata come Vida Movahed. Quasi nessuna femminista, autoproclamatasi tale, si è rallegrata che le donne iraniane si fossero ribellate alla dittatura del velo. Come ha scritto Rita Panahi, “mentre le coraggiose donne iraniane protestavano contro le leggi sull’hijab, le femministe occidentali celebravano l’hijab”.
Il 1° febbraio trenta ragazze iraniane venivano arrestate. Quel giorno, in occidente, si celebrava invece la Giornata del velo
Sfortunatamente, per le donne iraniane il velo non è uno “sviluppo entusiasmante”, ma un’imposizione odiosa del regime. Nei giorni scorsi, trenta altre ragazze iraniane si sono tolte il velo e lo hanno sventolato con una canna agli angoli delle strade e delle piazze dell’Iran, sapendo che pochi minuti dopo sarebbero finite in carcere. La Guida suprema, Ali Khamenei, aveva detto di voler fermare questa “invasione culturale occidentale”. La polizia avrebbe preso di mira le donne troppo libere. Vietati i jeans stretti, i tatuaggi, gli abiti dai colori accesi e le unghie lunghe. Banditi pure i body piercing, le gemme nei denti, i cappottini stretti. Gli occhiuti moralizzatori fanno attenzione in particolare alle donne che vestono “come modelle”. Vietati i foulard che lasciano uscire ciuffi di capelli.
Quando lo scorso autunno le forze americane e curde hanno liberato Raqqa, tante donne della città siriana sono scese per strada per bruciare i lugubri veli che l’Isis aveva loro imposto. In occidente quasi nessuno se ne è accorto. Nessuna femminista ha gioito con sit-in, flash mob o altri eventi per attirare l’attenzione. La caduta di Harvey Weinstein, della Hollywood del patriarcato e del sessismo istituzionalizzato, aveva già occupato tutta l’immaginazione del femminismo occidentale. Negli stessi giorni in cui veniva lanciato l’hashtag #MeToo, le combattenti curde facevano cadere Raqqa e liberavano, oltre alla città, anche molte schiave yazide.
Il 1° febbraio in occidente si celebrava la Giornata mondiale del velo. In Iran, le donne venivano arrestata per essersi tolte il velo. Nessuna rappresentante ufficiale dell’Unione europea, non certo Federica Mogherini, si è esposta a difesa delle donne iraniane. Nessuna delle femministe svedesi, un anno fa lestissime a marciare col velo di fronte agli ayatollah iraniani, ha detto nulla sull’incarcerazione delle iraniane. Non certo Ann Linde, la ministra svedese che aveva guidato la delegazione di donne e ufficiali di Stoccolma velate di fronte agli ayatollah. Non certo Lady Ashton, che a Bruxelles occupò la sedia oggi di Federica Mogherini. Ashton cominciò col colletto aperto, continuò con un foulard e l’opposizione iraniana ha finito, almeno nella satira, per farle indossare un chador, la tunica tradizionale iraniana che copre la donna dalla testa ai piedi. Ashton era arrivata a un giro di colloqui a Istanbul con gli iraniani avvolta in una grande sciarpa bianca che ne copriva la camicia, un “gesto” accolto con favore dagli iraniani, i cui media di stato avevano in precedenza coperto il collo della Ashton rimasto fuori dalla giacca.
Parla Chesler: “Le donne occidentali sono state persuase che è bello indossare il velo e lo difendono come un diritto religioso”
La National Organization of Women, la Now, non ha detto nulla sulle ragazze iraniane. Non una sillaba da parte della American Association of University Women, altra storica organizzazione femminista americana. Niente da parte della Ywca, la più antica assise femminista al mondo. Niente da parte di Naomi Klein. Nulla nemmeno da parte delle ufficiali dell’Onu. Le donne iraniane sono le uniche nel mondo islamico che sfidano apertamente la dittatura dell’imamato islamico. Non accade altrove, non in Arabia Saudita o in Qatar. Il messaggio che lanciano loro le femministe è questo: noi, femministe occidentali, prima ci sdilinquiamo, poi facciamo la morale al maschio bianco e condanniamo l’uso del corpo femminile; voi, ragazze dell’oriente esotico e islamico, vi lasciamo abbracciare tutto il vostro “pudore” e l’imposizione del burqa come forma di “rispetto culturale”.
Nei giorni in cui veniva lanciato l’hashtag #MeToo, le donne di Raqqa venivano liberate dall’Isis dalle donne curde
Alle marce delle donne cori contro il bando di Trump dai paesi musulmani, non uno slogan contro i regimi che impongono il velo
C’è qualcosa di terribilmente sbagliato quando un milione di donne possono trovare i soldi e il tempo per recarsi a Washington, acquistare cappelli rosa e scendere in strada indossando l’hijab per protestare contro Donald Trump e il suo bando dei sette paesi musulmani, ma sono reticenti e accondiscendenti quando si tratta delle pene di milioni di donne (come Derakhshani) che sono represse per non aver indossato l’hijab. Per qualche ragione, quando si tratta di altre culture, le femministe sono più che pronte e prone a giustificare la discriminazione di massa sulla base del fatto che quel paese è stato abusato o maltrattato dall’imperialismo occidentale, fornendo in qualche modo una clausola di “uscita” quando si tratta di diritti umani per i propri popoli. Questo porta ad alleanze sbalorditive. Ad esempio, nel dicembre 2015, le società femministe e Lgbt della Goldsmith University di Londra si sono alleate con la società islamica fondamentalista del college, contro l’ex attivista per i diritti umani e iraniana, Maryam Namazie, che si oppone all’hijab.
“Le esiliate iraniane in Europa e Stati Uniti, come le femministe sikh, parlano eccome delle donne iraniane”, dice al Foglio Phyllis Chesler, docente alla City University di New York, femminista e giornalista. “Il problema sono le femministe di sinistra, le postmoderniste, le ‘intersezionali’, quelle che marciano con il cappellino rosa con le orecchie da gatto e denunciano la violenza maschile in occidente ma la negano nel tribale e totalitario oriente, per ragioni di antirazzismo che, a loro avviso, viene prima dell’antisessismo. Molte femministe occidentali hanno definito l’hijab come un atto di resistenza, una protesta contro il razzismo e in particolare contro la presunta islamofobia. Le donne musulmane in medio oriente, estremo oriente e Africa sono costrette a indossare l’hijab, non per una libera scelta. Molte vengono picchiate, alcune sono uccise in delitti d’onore quando si rifiutano di farlo o lo fanno in modo improprio. Inoltre, come molti altri attivisti occidentali, sono state persuase a indossare l’hijab. E’ un requisito religioso (al contrario di un’usanza etnica o culturale) e come tale, gli occidentali lo difendono come un diritto religioso”.