L'Ue si apre a est e torna il tormento del Kosovo (con un asterisco)
Bruxelles ha presentato il documento per l’allargamento nel 2025. La strada più breve per Pristina però passa da Madrid
Milano. Il paese più europeista di Europa non fa parte dell’Unione europea. Fin dal 2008, infatti, il Kosovo – che compirà dieci anni il prossimo 17 febbraio, anniversario della dichiarazione di indipendenza – si afferra con la presa rapinosa di un naufrago all’Europa, agli Stati Uniti e all’occidente in genere. Il Kosovo ha paura di essere risucchiato dai gorgoglianti Balcani meridionali in cui, seppur pieno di monti e lontano dal mare, è immerso fino al collo. Ma forse ha paura soprattutto di essere risucchiato da se stesso, dalla sua arretratezza economica, da una corruzione pervasiva, da un’applicazione della democrazia ancora molto acerba e perlopiù clanica, da una violenza ancora troppo diffusa, da un equilibrio fragilissimo con la Serbia e, soprattutto, con la minoranza serba del Kosovo – proprio pochi giorni fa è stato assassinato Oliver Ivanovic, un importante leader moderato dei serbi kosovari. Secondo le rilevazioni del Consiglio di cooperazione regionale, il 90 per cento dei cittadini kosovari ritiene che per il proprio paese, grande come la Basilicata e con meno abitanti della Calabria, l’ingresso nell’Unione europea sarebbe una buona cosa: un dato che non ha paragoni con nessun altro stato, né dentro all’Ue né fuori, a eccezione dell’Albania.
Il Kosovo si è dato una bandiera che ha molte somiglianze con quella europea, ha adottato unilateralmente l’euro come propria valuta, pur senza avere voce in capitolo riguardo alla politica monetaria (la stessa decisione è stata presa anche dal Montenegro), e ha scelto come inno nazionale una composizione che si intitola “Evropa”. Di più: un grande viale di accesso alla capitale Pristina si chiama “Bulevardi Bill Klinton” e un’altra via del centro città si chiama “Bulevardi Xhorxh Bush” – e non è difficile individuare, sotto la traslitterazione fonetica albanese, il nome dei due presidenti americani, considerati padri della patria conto terzi. A Clinton sono dedicate anche gigantografie e una statua. A sua moglie, e al suo stile, sono invece devoti i negozi di abbigliamento “Hillary”. Da parte sua, Tony Blair in una visita a Pristina nel 2010 è stato accolto dall’undicenne Tonibler Sahiti e da una decina di altri ragazzini coetanei, tutti in giacca e cravatta, chiamati dai loro genitori “Tonibler”, “Toni” o “Bler”, in onore dell’ex premier del Regno Unito.
Eppure, la strada più breve tra Pristina e Bruxelles passa da Madrid. Peraltro, passa da Madrid anche la strada più breve tra Pristina e Belgrado, benché le due città balcaniche siano distanti fra loro soltanto 400 chilometri. E la spiegazione di questi stravaganti itinerari sta tutta in un asterisco. Ieri la Commissione europea ha presentato un documento sulle “prospettive credibili” di un futuro allargamento dell’Ue ai paesi dei Balcani occidentali, noti nel gergo diplomatico come WB6 (Western Balkans six). I sei paesi sono Serbia, Albania, Macedonia, Montenegro, Bosnia Erzegovina e Kosovo. Ma nel documento della Commissione il nome “Kosovo” è corredato di un asterisco che rimanda alla seguente nota a piè di pagina: “Questa denominazione (cioè ‘Kosovo’, ndr) è senza pregiudizi rispetto al suo status ed è in linea con la risoluzione 1244/1999 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con l’opinione della Corte internazionale di giustizia sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo”. Tradotto: la Commissione non vuole irritare i cinque paesi dell’Ue che ancora non riconoscono la sovranità di Pristina, cioè la Grecia, Cipro, la Romania, la Slovacchia e, soprattutto, la Spagna.
Il Kosovo si è dato una bandiera che ha molte somiglianze con quella europea, ha adottato unilateralmente l’euro come propria valuta e ha scelto come inno nazionale una composizione che si intitola “Evropa”. Ma ha paura di essere risucchiato dai gorgoglii dei Balcani, da se stesso e dalla Spagna
Se Atene ha da eccepire anche sulla Macedonia per un’antica questione onomastica che il Foglio ha raccontato qualche giorno fa (e, non a caso, il suddetto documento della Commissione europea si riferisce prudentemente a quel paese come “FYROM”, cioè “Ex Repubblica jugoslava di Macedonia”), il vero problema, strutturale, è quello posto dalla Spagna: Madrid si rifiuta tout court di riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Il motivo di questa posizione intransigente si esplicita con una sola parola: Catalogna. Amen? No. Il riconoscimento del Kosovo è una di quelle apparenti minutaglie che si riverberano anche su questioni di assai più ampia portata. Si dovrebbe quindi forzare la Spagna ad accettare un’indipendenza che di fatto è già tale? Forse. Si sarebbe dovuti arrivare a un’eventuale indipendenza del Kosovo con più cautela? Forse. Quel che è certo, è che la politica estera comune europea non è comune. Ed è certa anche un’altra cosa: l’afflato europeo è l’unico stimolo attraverso cui si possano sopire le alzate d’ingegno nazionaliste nei Balcani, nonché l’unica garanzia che alle periodiche dichiarazioni politiche incendiarie facciano sempre da controcanto, opportunistiche o no forse poco importa, dichiarazioni più moderate da parte delle più alte istituzioni dei Paesi WB6. E’ il caso della Serbia che, pur timidamente, si è messa a dialogare con il Kosovo. Ed è anche il caso del Kosovo stesso in cui il presidente Hashim Thaçi, il premier Ramush Haradinaj e il presidente del Parlamento Kadri Veseli, tutti e tre ex leader del gruppo paramilitare Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), hanno dovuto obtorto collo difendere dai tentativi di smantellamento la continuità della Corte Speciale per i crimini commessi dall’Uck nella guerriglia contro la Serbia negli anni Novanta. Incredibile? Sì, ma “ce lo chiede l’Europa”, “ce lo chiedono gli Stati Uniti”, “ce lo chiede l’occidente”, sono costretti a dire.
Ieri, la Commissione ha fatto intravedere, come ambiziosa prospettiva, un possibile ingresso nell’Ue entro il 2025 per Serbia e Montenegro. Ma, se non verrà offerta una concreta prospettiva europea al Kosovo, Pristina non sarà spinta a un dialogo con Belgrado. E, senza un dialogo (proficuo e dai risultati definitivi) con il Kosovo, la Serbia non entrerà mai nell’Ue. Intanto il presidente della Commisione, Jean-Claude Juncker, tra il 26 febbraio e l’1 marzo farà un viaggio che si concluderà in Bulgaria, presidente di turno dell’Ue, e toccherà Tirana, Skopje, Podgorica, Sarajevo, Belgrado. E, sì, anche Pristina.
Dalle piazze ai palazzi
Gli attacchi di Amsterdam trascinano i Paesi Bassi alla crisi di governo
Nella soffitta di Anne Frank