La legge negazionista in Polonia e le storie terribili che i polacchi non vogliono sentire
La storia di due villaggi spiega perché la legge appena approvata e che vuole cancellare i crimini di parte della società polacca contro gli ebrei è un atto di negazionismo
Che cosa ci va a fare a Kaluszyn, non c’è nemmeno più il cimitero, è diventato un campo di patate”, si sentì dire alcuni anni fa, in Polonia, la scrittrice israeliana Yehudit Hendel. Come racconta nel suo diario di viaggio, I villaggi del silenzio (Guida, Napoli 2000), la visita nella natia Polonia si dimostrò un’avventura nel deserto e nel silenzio. Un silenzio però molto rumoroso.
Un altro scrittore, il polacco Henryk Grynberg (1936), nel 1992, tornò dagli Stati Uniti per recarsi nel villaggio di Dobro (che, macabramente, significa: “Bene”) a fare ricerche sulla morte di suo padre. Assieme al regista Pawel Loziński girarono un documentario su quella ricerca: Miejsce urodzenia (Luogo di nascita, 1993) dal quale fu tratto un libro, Dziedzictwo (Infanzia, Aneks, Londra 1993). La famiglia stava nascosta nei boschi e ogni giorno il padre, Abram, andava per i villaggi vicini con una bottiglia per prendere il latte e qualcos’altro da mangiare. Un giorno non fece ritorno. Fu ammazzato da un polacco e seppellito con la bottiglia. Tutta la gente attorno vide la scena e non parlò. Cinquant’anni dopo, le incalzanti domande dello scrittore e le telecamere che scrutano impietose i volti e i gesti di quei vecchi fanno tornare a galla la verità e, soprattutto, smascherano un contesto di odio verso gli ebrei che lascia senza parole. Come sostenne il regista in un’intervista (K. Bielas, Miejsce dochodzenia, sulla Gazeta Wyborcza, nel 1993), il film funzionò come una sorta di autoterapia collettiva: la gente di quei villaggi tirò fuori delle cose che aveva tenute dentro di sé per anni, come un terribile segreto. Ma, assieme alla verità, furono i pregiudizi radicati nel popolo polacco che vennero fuori. Una donna disse: “Del resto, proprio quell’ebreo chiedeva di essere ammazzato. Era così mal messo…”.
Durante la Seconda guerra mondiale sono accadute nel centro dell’Europa cose che ancora è difficile sapere, immaginare e capire. In quegli anni fu cancellata da quelle terre la comunità ebraica: la sua gente, la sua lingua e la sua cultura. Oggi in Polonia c’è il deserto, ma da sotto la sabbia, soprattutto dopo il 1989, continuano a riaffiorare di tanto in tanto episodi terribili e inquietanti, che fanno intuire una verità che anche il regime comunista aveva fatto di tutto per tenere nascosta: non furono soltanto i nazisti a sterminare la più grande comunità ebraica del centro Europa, ma ebbero la complicità attiva delle popolazioni locali.
Tra poche settimane, un’affermazione come questa, in Polonia, potrebbe costare una condanna penale in base a una legge passata prima alla Camera e poi al Senato, e che ieri l’altro ha ottenuto anche la firma del presidente della Repubblica polacca Andrzej Duda (il quale, però, ha deciso di inviarla alla Consulta per una verifica).
Si tratta di un emendamento riguardante la legge sulle attività svolte dall’Ipn (l’Istituto della Memoria nazionale). Più precisamente riguarda l’articolo 55a che prevede la possibilità di punire tramite sanzioni, tradotte in una multa oppure fino a tre anni di carcere, “chi pubblicamente e contro i fatti attribuisce al popolo polacco e allo stato polacco la responsabilità o la corresponsabilità dei crimini nazisti commessi dal Terzo Reich tedesco specificati nell’articolo 6 della Carta del Tribunale militare internazionale allegata.
Questa legge, fortemente voluta dal partito nazional-conservatore di Jaroslaw Kaczynski, mette assieme, furbescamente e maldestramente, due aspetti. Il primo è la comprensibile esigenza (che però non si può pensare di sanzionare per legge!) di respingere l’offensiva dizione, spesso in uso, di “campi di sterminio polacchi”. Il primo di febbraio, il nuovo premier polacco, Mateusz Morawiecki, ha ribadito la posizione del suo governo affermando in modo deciso che “i polacchi sono stati vittime dell’aggressione del Reich e molti di loro, insieme a persone di molte altre nazionalità, hanno condiviso il tragico destino dei campi. (…) Quei campi in cui furono uccise milioni di persone non erano polacchi e questa verità deve essere difesa perché essa è parte della verità sull’Olocausto”.
In un appello contro la legge, gli esponenti della comunità ebraica polacca sono stati, in proposito, ancora più chiari: “Non c’è dubbio che la definizione ‘campi di morte polacchi’ sia una menzogna. I campi di sterminio furono creati dai nazisti sui territori della Polonia occupata per sterminare il popolo ebraico nel quadro della Soluzione finale. Per questo è una menzogna attribuire alla nazione polacca qualsiasi corresponsabilità per la loro istituzione. In quanto testimoni e discendenti degli ebrei e delle ebree sterminati durante l’Olocausto rifiutiamo questa definizione falsa”.
L’espressione “campi di sterminio polacchi”, in riferimento ai lager nazisti (che furono istituiti dai tedeschi in Polonia per il semplice fatto che là, e nelle vicinanze, c’era il più grande numero di ebrei) è, come afferma il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, “una terribile diffamazione che nuoce agli interessi e al buon nome della Polonia”.
L’altro aspetto, che suscita giustamente scandalo e le proteste tra gli altri del governo israeliano, è che la legge vuole impedire che si parli di corresponsabilità di polacchi nell’Olocausto e intenderebbe punire coloro (anzitutto i superstiti, i loro parenti e gli storici) che lo fanno. Come ha sostenuto il presidente del Centro Simon Wiesenthal, Efraim Zuroff: “La legge è un tentativo del governo di imbiancare la coscienza da ogni ricordo di responsabilità nell’Olocausto. E’ concepita molto male. Contiene un elemento di verità ma cerca di lavare la coscienza di tutti sulla complessa realtà passata”.
Tutta la complicatissima e drammatica questione del rapporto tra polacchi ed ebrei, durante e immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale, si può racchiudere tra due emblematici episodi legati a due cittadine della Polonia: Jedwabne (nel 1940) e Kielce (nel 1946).
La cittadina di Jedwabne si trova nelle vicinanze di Bialystok, nella parte orientale della Polonia. Alla vigilia della guerra era un paesino fatto di case di legno, circondato dai boschi, e vi abitavano 2.167 persone: per il 60 per cento erano ebrei. Ebrei che non erano “chassidim” e non erano quindi riconoscibili visivamente dagli altri abitanti (non vestivano con i caffettani neri, non portavano cappelli di pelliccia e mantelli, né lunghe barbe). Inizialmente Jedwabne fu invasa dai tedeschi, che bruciarono la sinagoga, ma poi, in base al patto Ribbentrop-Molotov, passò sotto il controllo sovietico. Nel giugno del 1940, nelle sue vicinanze, fu annientato un gruppo di partigiani antisovietici: circa 250 vennero arrestati, alcuni furono uccisi, altri deportati in Siberia. I delatori erano stati dei polacchi, ma la gente sospettò gli ebrei. Il 23 giugno del 1941, la cittadina fu occupata di nuovo dai tedeschi. Il giorno seguente, i polacchi iniziarono ad assassinare alcuni ebrei per strada. Alcuni anziani furono presi e torturati a morte e delle donne inseguite e bastonate bestialmente. Settantacinque tra i più giovani e robusti ebrei vennero costretti a portar via dalla piazza il pesante monumento a Lenin, eretto dai sovietici. Dovettero scavare, cantando, una fossa e buttarcelo dentro. Dopo anche loro vi furono gettati e sepolti. Lo sterminio di 1.600 persone si concluse il 10 luglio. Capeggiati dal sindaco Karolak, nominato dai tedeschi, alcuni cittadini armati ammassarono gli ebrei superstiti (a eccezione di sette persone che furono nascoste da polacchi e riuscirono poi a fuggire). Li costrinsero a marciare in fila dietro al rabbino novantenne con una bandiera rossa. Li chiusero in un fienile e, dopo averlo cosparso di nafta, gli dettero fuoco. Poi andarono a cercare, per le case degli ebrei, gli eventuali scampati, tra i vecchi ammalati e i bambini.
I polacchi di Jedwabne fecero esattamente quello che facevano i nazisti, addirittura con un di più di rurale barbarie che sorprese persino i tedeschi. Secondo la testimonianza di Julia Sokolowska, “i tedeschi stavano a distanza e facevano foto che poi mostrarono per far vedere come i polacchi massacravano gli ebrei”. Ma quello che raccontano i testimoni è sufficiente. A compiere il massacro furono in pochi. Ma il resto degli abitanti “rideva e faceva il tifo”, inseguiva gli ebrei che fuggivano e bloccava loro la strada. Il prete Aleksander Dolegowski, al quale alcune donne ebree si rivolsero per chiedere un intervento che fermasse il massacro, disse che “tutti gli ebrei dai più giovani ai sessantenni sono comunisti e non ho nessun interesse a difenderli”. Il medico polacco Jan Mazurek si rifiutò di curare i feriti e fornire delle medicine agli ebrei che le chiedevano.
Il principale artefice del pogrom venne poi fermato e ucciso dai nazisti per essersi impadronito di beni ebraici.
Ma la storia non finì lì. Nella primavera del 1945 vennero assalite e minacciate di morte due famiglie polacche (i Karwowski e i Wyrzykowski) colpevoli di aver nascosto e salvato i sette ebrei. L’8 gennaio del 1949 la polizia politica polacca arrestò 15 persone sospettate di essere gli artefici del pogrom. Nel processo, che si svolse il 16-17 maggio dello stesso anno, 11 persone vennero riconosciute colpevoli e condannate a pene tra i 5 e 15 anni, e uno (Karol Bardon) fu condannato a morte. Nel 1957 erano di nuovo tutti in libertà.
Agli inizi degli anni Sessanta, venne eretto un piccolo monumento (rimosso soltanto lo scorso anno), nella piazzetta del paese, che ricordava “gli ebrei ammazzati dai nazisti”. L’iscrizione era firmata: “La società”. Un’ulteriore menzogna e una macabra offesa alle vittime: proprio “quella società” aveva massacrato gli ebrei!
La storia di Jedwabne fu raccontata, nel 2000, da uno dei migliori storici polacchi della generazione del Sessantotto, Jan Tomasz Gross, allora docente di Scienze politiche alla New York University, nel libro I carnefici della porta accanto (Mondadori, Milano, 2002), al quale seguì Un raccolto dell’oro. Il saccheggio dei beni ebraici (Einaudi, Torino, 2016). Il libro suscitò un putiferio di polemiche ma contribuì a togliere un velo di omertà che oggi si tenta di stendere nuovamente. “Una vergogna nazionale”, definì la vicenda di Jedwabne lo storico ed ex leader dell’opposizione Adam Michnik (sul New York Times, nel 2001). Sul quotidiano da lui diretto, la Gazeta Wyborcza, che aprì le sue pagine alla discussione, una signora intervistata disse: “Dei fanatici assassini si possono sempre trovare, e sempre durante una guerra hanno un terreno favorevole per dar sfogo alla propria bestialità, ma gli indifferenti o, peggio ancora, quelli che ridevano e stavano a guardare, quelli che potevano fare qualcosa e non l’hanno fatto, gettano una luce di colpevolezza sulla gran parte della popolazione polacca”.
Le gerarchie ufficiali della chiesa cattolica, che si sentirono chiamate in causa, chiesero ufficialmente scusa agli ebrei per quello che era avvenuto a Jedwabne. Il vescovo Tadeusz Pieronek parlò apertamente di genocidio e criticò quei preti che avevano assunto un atteggiamento negazionista: “La colpa del delitto ricade su tutti noi polacchi. Dobbiamo assumerci la responsabilità per le azioni di coloro tra i nostri antenati che erano dei criminali”. Ma allora c’era un altro clima politico in Polonia e anche l’Episcopato aveva delle posizioni più aperte. Sembrano oggi passati moltissimi anni e anche in Polonia c’è molta voglia di dimenticare (voglia che il governo ispirato da Kaczynski interpreta perfettamente).
“I crimini nazisti, contro gli ebrei ma anche contro i polacchi, hanno coperto questi episodi di infamia polacca”, sostenne allora un anziano biologo ebreo polacco residente a Parigi, figlio del grande poeta polacco Antoni Slonimski, “era fin troppo facile dire ‘siamo tutti vittime dei nazisti’; ma per me lo scandalo non è Jedwabne ma il massacro del 4 giugno 1946, a Kielce, da parte dei polacchi, di 42 ebrei sopravvissuti e appena rientrati dall’Unione sovietica”.
Nel luglio del 1946 c’erano in Polonia 244.964 persone che si dichiaravano ebrei (di oltre 3 milioni di prima della guerra). Di essi: 136.550 erano ebrei polacchi rimpatriati dall’Unione sovietica nel periodo febbraio-giugno 1946 (in base all’accordo per il rimpatrio tra Polonia e Unione sovietica, del 6 luglio 1945); gli altri 108.000 erano ebrei che erano sopravvissuti alla guerra in Polonia o erano arrivati clandestinamente dall’Ucraina, la Bielorussia e la Lituania.
Nella città di Kielce, nella Polonia sud-orientale, il primo luglio del 1946, un bambino di nove anni, Henryk Blaszczyk sparì per due giorni e fece ritorno dicendo che lo avevano sequestrato degli ebrei. Questo fatto scatenò un terribile pogrom: molti testimoni sottolinearono la bestialità di quel massacro, sostenendo che era stato addirittura molto peggio di ciò che avevano visto e subìto durante l’occupazione tedesca. Alla fine di quel tragico 4 luglio, si contarono 38 morti e 40 feriti gravi. Ma non fu un caso isolato: la violenza attraversava tutto il paese, tanto che si parlò del “massacri dei sopravvissuti”: gli ebrei che tornavano vennero spesso ammazzati. Al tradizionale antisemitismo di matrice religiosa si aggiunse quello politico, che associava gli ebrei ai comunisti (come hanno ben descritto Gabriele Nissim e Gabriele Eschenazi in Ebrei invisibili, Mondadori, Milano. 1995). L’ex comandante della rivolta del Ghetto di Varsavia, Marek Edelman, ricordava: “Kielce non era un caso isolato. Si avvertiva tensione. Gli ebrei tornavano dalla Russia, qualcuno avrebbe potuto voler ritornare nella propria casa. Una bella fetta di popolazione polacca aveva fatto un passo avanti occupando appartamenti, negozi. Molte di quelle cose che gli ebrei avevano lasciato in deposito ai polacchi erano diventate loro. Avevano paura di veder tornare un giorno qualcuno che avrebbe potuto chiederle indietro. A Lodzź avevo un amico, Friszke, un sarto di Lublino tornato in Polonia con l’Armata rossa. Non era un personaggio importante. Quel pomeriggio avevo un appuntamento con lui. Quando sono arrivato, era disteso in una vasca da bagno. Gli avevano sparato alla nuca mentre si lavava le mani, appena tornato dal lavoro. Gli ebrei venivano fatti scendere dai treni in mezzo ai boschi e uccisi. Quelle erano azioni dei partigiani dell’estrema destra. C’era gente che diceva che Hitler non aveva finito l’opera, perché erano rimasti ancora degli ebrei. Che gli ebrei volevano impadronirsi della Polonia”.
Lo scrittore polacco, emigrato a Napoli, Gustaw Herling (1928-2000), autore di Un mondo a parte (appena ripubblicato negli Oscar Mondadori) tornò dopo cinquant’anni, dall’8 al 13 maggio del 1991, a visitare la sua patria e Kielce, la città natale. Herling era di origini ebraiche, anche se su questo aspetto preferì sempre mantenere una certa riservatezza. Alla domanda se fosse ebreo, rispondeva sempre di esser polacco. Il suo silenzio era dovuto al fatto di non aveva vissuto di persona l’ Olocausto e non voleva usurpare un ruolo non suo (quello dello scrittore ebreo sopravvissuto). Herling si recò nel palazzo dove furono massacrati gli ebrei e annotò sul suo Diario scritto di notte: “Qualsiasi cosa si dica su questo pogrom, che sia stata una provocazione degli apparati di sicurezza polacchi o di quelli sovietici, non si spiega la velocità e la facilità con la quale la scintilla della provocazione attizzò l’incendio. La terra sembrava non aspettare altro che quella scintilla”.
Con una legge si tenta oggi di mettere in pace la coscienza nazionale, autoassolvendosi e operando una superficiale semplificazione di una storia fatta di ombre e di luci. Come scrisse giustamente il grande storico Jerzy Jedlicki (“Polityka”, 10/II/2001): “Nel patrimonio della coscienza collettiva polacca contano sia l’eroismo che il disprezzo, sia la pietà che la mancanza di pietà. Perché ci sono due registri della memoria (…). Purtroppo non possiamo sceglierne solo uno: se accettiamo l’eredità delle generazioni precedenti ci tocca l’eredità sia della loro grandezza che della loro meschinità, sia dell’onore che della vergogna”.
Se ricordare e raccontare queste terribili storie sarà, in Polonia, punibile con una multa, o addirittura con la prigione, non resta altra cosa da fare: raccontarle e ancora raccontarle.