John Kelly e Donald Trump. Foto LaPresse

Gli scandali ricadono su Kelly, il "big fat liar" scaricato da Trump

Le novità sul caso di Rob Porter travolgono il capo di gabinetto americano. Questa volta la campagna contro di lui non nasce da una fronda ma dal presidente stesso

New York. Il direttore dell’Fbi, Christopher Wray, ha gettato nuovo combustibile sul caso di Rob Porter, il segretario dello staff della Casa Bianca allontanato dopo che sono venuti alla luce i racconti di abusi e violenze delle due ex mogli. Nella deposizione di martedì davanti alla commissione Intelligence del Senato, Wray ha contraddetto la versione della Casa Bianca, secondo cui Porter non è stato rimosso prima perché c’era un’indagine dei federali ancora in corso e comunque nessun funzionario sapeva della vicenda prima che il Daily Mail la rendesse pubblica. La timeline di Wray è chiara: l’Fbi ha consegnato un rapporto parziale dell’indagine nel marzo dell’anno scorso che poi è stato aggiornato in giugno. Poco dopo l’Fbi ha ricevuto una richiesta di nuove informazioni, che sono state fornite a novembre. A gennaio di quest’anno il fascicolo è stato chiuso”. La Casa Bianca ora dice che l’inchiesta interna alla West Wing, sulla quale si basano le decisioni sullo staff, non ha nulla a che fare con quella del bureau, ma almeno due portavoce del presidente avevano scaricato la responsabilità sull’odiata agenzia di controspionaggio. La commissione di controllo della Camera, presieduta dal repubblicano Trey Gowdy, ha annunciato un’ulteriore inchiesta su un caso che ricade politicamente sulle spalle di John Kelly, il capo di gabinetto che ha rapidamente perso molte protezioni e con il caso Porter si è infilato in un altro pantano. Kelly ha continuato a insistere che la Casa Bianca non sapeva nulla delle violenze del consigliere e ha permesso che Hope Hicks, il capo della comunicazione, che aveva una relazione con Porter, suggerisse una strategia difensiva. La portavoce di Trump ha detto che il presidente “ha piena fiducia nel chief of staff”, ma le dichiarazioni di Wray cadono come una tegola sulla credibilità di un generale a lungo considerato lo stoico razionalizzatore di un’Amministrazione indomabile. Ora danza anche lui nell’instancabile circo di una Casa Bianca che dopo poco più di un anno ha cambiato il 34 per cento del personale – lo ha scritto Peter Baker sul New York Times – tasso che fa apparire il governo di Nixon come il regno della stabilità.

  

Nell’atmosfera da congiura permanente, i colleghi di Kelly distribuiscono velenosi virgolettati a briglia sciolta: uno, parlando con i cronisti del Washington Post, lo ha chiamato un “big fat liar”, e usando il gergo militare ha spiegato che la gestione del caso Porter “equivale a una inadempienza dei doveri”. Mike Allen, direttore di Axios e terminale autorevole del chiacchiericcio interno, ha ottenuto la versione di un funzionario di alto rango: “E’ la cultura di Trump: ognuno per sé. Faccio ciò che è meglio per me, non per l’organizzazione”. Kelly, dice la fonte, “è stato contagiato dalle abitudini di Trump. Lui non fa mai un passo indietro, e Kelly continua a insistere che ha ragione”. Maggie Haberman del New York Times aggiunge un ulteriore elemento nel già complicato plot della crisi del capo di gabinetto: “Le persone vicine a Kelly ora si rendono conto che i leak arrivano da Trump”, cioè che la campagna in corso contro il capo di gabinetto non nasce da una fronda ma dal presidente stesso. Non sarebbe la prima volta, anzi, l’antagonismo esasperato e le punizioni esemplari sono parte integrante del metodo trumpiano. Da quando Kelly ha detto pubblicamente che Trump non era ben informato sulle condizioni per la costruzione del muro, il presidente gli sta con il fiato sul collo. Gli sviluppi del caso Porter possono cambiare un delicato equilibrio. 

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