Per capire la sfida Cina vs Usa, guardate sotto il pelo dell'acqua
Un esperto ci spiega perché la partita per l’“Indo-Pacifico” si gioca con i sottomarini, e il ruolo dell’Asean
Singapore. “Dove finisce l’oceano Indiano? Dove comincia il Pacifico occidentale ? Sin dove si estende il mar della Cina meridionale?”. Per tutte queste domande Swee Lean Collin Koh, 36 anni, dell’Institute of Defence and Strategic Studies di Singapore, ha una risposta unica: il sud-est asiatico.
Il sud-est asiatico, dove si mescolano le acque dell’oceano Indiano, del Pacifico, dei mari della Cina in tutte le sue definizioni cardinali, dove antiche mappe e carte satellitari si sovrappongono, è uno degli scenari in cui si consuma quella che Robert D. Kaplan ha descritto come la “Vendetta della Geografia”.
“L’Asean è a un punto di flesso” ha scritto Vivian Balakrishnan. Il ministro degli Esteri di Singapore pone l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico come ago della bilancia geostrategica, utilizzando una terminologia (il punto di flesso è il punto in cui una curva cambia di concavità) che esprime sia la complessità dello scenario sia la preparazione dei tecno-mandarini che lo disegnano.
“Equalizer” è il termine usato da Collin, che di questi tecnici è la giovane incarnazione, per definire il meccanismo che permette di risolvere la tensione tra storia e geografia e stabilire un nuovo ordine negli equilibri regionali. “Le regole basate sull’ordine e il multilateralismo permettono alle nazioni più piccole e deboli di amplificare la loro voce sulla scena mondiale. Le nazioni dell’Asean per la loro storia sono drammaticamente coscienti di essere merce di scambio. Il che non è a tutti i costi negativo: ne possiamo trarre il massimo vantaggio”.
Laureato in Ingegneria, specialista in affari navali nell’Indo-Pacifico, Collin disegna un’architettura di connessioni tra nuove tecnologie, “teoria dell’offesa-difesa” (l’incidenza della tecnologia militare nella politica internazionale), geopolitica. Tutti questi elementi, secondo Collin, possono trovare una rappresentazione nello studio della guerra sottomarina. “La proliferazione dei sottomarini nel sud-est asiatico da un punto di vista geopolitico è un elemento fondamentale per raggiungere l’equilibrio”, dice Collin, secondo il quale “la corsa al sottomarino” da parte di molte nazioni asiatiche rappresenta la versione 4.0 della strategia del terrore, un modo di mantenere la pace seguendo le nuove tecnologie. Al tempo stesso dimostra la modernità, la maturità tecnica ed economica di molte nazioni che sino a ora erano ai margini della scena. Seguendo questa tendenza, nelle acque dell’Indo-Pacifico del 2030 saranno occultati tra 250 e 300 sottomarini sempre più potenti, tecnologicamente avanzati (molti con caratteristiche stealth), adattabili a differenti target. E’ denominata “underwater defence community”, un ecosistema popolato da nuove specie e dove si moltiplica il rischio d’incidenti determinati da “incontri inaspettati” tra sottomarini o navi antisom, senza contare gli unmanned underwater vehicles (Uuv), i droni subacquei.
“In questo scenario, specialmente per le flotte minori, è fondamentale una gestione sostenibile”, commenta Collin, come se si riferisse alla pesca (che spesso è un detonatore di crisi). Ma l’Asean non è più disponibile a fare solo da scenario. Ecco perché si è fatta promotrice di accordi per definire un codice di comportamento in caso di “incontri inaspettati” sopra e sotto il mare, oltre che in cielo. Ed ecco perché l’Asean ha stabilito un protocollo per un codice di condotta nel mar della Cina meridionale e perché nel 2018 (probabilmente in ottobre) si svolgeranno le prime esercitazioni navali congiunte tra Asean e Cina. Qualcosa che si scontra con la richiesta degli Stati Uniti di partecipare alle operazioni definite di “libertà di navigazione” nel mar della Cina meridionale.
“L’Asean nasce in funzione anticomunista. Come elemento di un blocco in un mondo bipolare. Eravamo abituati a pensare in bianco e nero”, spiega Collin. “Ora la via dell’Asean è grigia. Molti toni di grigio. L’Asean è divenuta un’architettura di relazioni, una piattaforma che permette a tutti i paesi aderenti di giocare con diversi partner. I piccoli devono essere amici di tutti”. La sua analisi spiega la politica di nazioni quali la Thailandia, le Filippine, il Vietnam, la Cambogia, la stessa Indonesia e Singapore, che negli ultimi tempi appare sempre più incerta su quale punto di flesso orientarsi tra Cina e Stati Uniti. “Molti osservatori interpretano il multilateralismo dell’Asean come uno spostamento sotto l’influenza cinese”, dice Collin. “Questa è un’idea che sembra voler ricreare la trama della Guerra fredda. Non siamo preparati a scegliere. Né siamo pronti a un ordine mondiale dominato dalla Cina. D’altra parte ne condividiamo alcuni valori e non possiamo pensare all’Asean senza tenerne conto. Ma soprattutto non possiamo dare l’impressione di volerla contenere. Non possiamo farle perdere la faccia”. Tanto più che i rapporti economici con la Cina sono ormai ineluttabili dopo il ritiro degli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership (Tpp), che ha costretto i paesi asiatici a progettare un Tpp senza Washington e a portare avanti un altro accordo, la Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), che comprenda, oltre all’Asean, anche India e Cina.
L’Amministrazione Trump tenta di recuperare con la nuova definizione geografica dello scenario strategico: da “Asia-Pacifico” a Indo-Pacifico”. In questa mappa l’azione si sposta in acque lontane dall’influenza della flotta cinese, assegnando all’India (e all’Indonesia) un ruolo di contenimento dei piani di espansione do Pechino lungo le vie della seta marittime (materializzati nelle basi navali di Gwadar in Pakistan di Hambantota in Sri Lanka e di Djibouti all’estremo occidentale dell’oceano Indiano). “E’ una prospettiva geografica che non piace alla Cina: non ha sbocco sull’oceano Indiano e, in caso di conflitto, avrebbe difficoltà nel controllare le rotte commerciali”, dice Collin, che non perde l’occasione di reiterare l’importanza dei sottomarini.
Il cambio di scenario, del resto, sta già creando nuovi fronti rispetto al mar della Cina meridionale. Come quello lungo l’arcipelago delle Maldive, dove il governo filocinese ha dichiarato lo stato d’emergenza per eliminare l’opposizione, sostenuto dall’India. Secondo Collin altri fronti si possono riaccendere in Myanmar e Bangladesh, dove da secoli collidono interessi e culture indo-cinesi. Ma tutte queste possibili linee di fuoco a lungo termine non sembrano rafforzare la strategia statunitense. L’America rischia di trovarsi isolata in acque sempre più divise e contestate, sia nell’oceano Indiano sia nel Pacifico occidentale, dove il Giappone promuove la “Free and Open Indo-Pacific Strategy”, enfatizzando il suo ruolo a fianco dell’Asean e dove l’Australia appare sempre più tentata dalla neutralità.
“A questo gioco ci sono sempre più partecipanti”, dice Collin. “Ecco perché non è più possibile ragionare in termini bipolari”. Dice il Saggio: due tigri non possono dividersi la stessa montagna.
Dalle piazze ai palazzi