Cambiare un alfabeto non è un capriccio. La geopolitica dell'abc
Il Kazakistan vuole passare ai caratteri latini. Non è l’unico, ma in ogni decisione c’è una strategia (e c’entra Google)
Milano. Il Kazakistan si avvia a cambiare alfabeto entro il 2025. Qualche mese fa, il governo del paese centroasiatico ha deciso di sostituire la particolare forma di cirillico ereditata dalla lunga permanenza nell’Unione Sovietica e di passare a un nuovo sistema di scrittura basato sull’alfabeto latino. Come ogni altro idioma, anche il kazako, che appartiene alla famiglia delle lingue turche, ha dei fonemi particolari. Quindi, per sostituire il cirillico ora in uso, che fu “customizzato” intorno al 1940 per trascrivere i suoni kazaki, un’apposita commissione si è messa a studiare gli opportuni accorgimenti per adattare l’alfabeto latino alle peculiarità della lingua locale: segni diacritici, combinazioni di lettere, nuovi simboli.
Il presidente Nursultan Nazarbaev, capo dello stato dal 1990, non è mai stato incline a lasciare da soli i cittadini in snodi storici complessi come lo è un cambio di alfabeto. Ed è ancor meno incline a lasciare sola la commissione preposta allo studio di tale cambio. Per questo, qualche settimana fa, il presidente ha proposto, con efficacia autocratica, di utilizzare perlopiù gli apostrofi per rappresentare graficamente i suoni propri del kazako. I suggerimenti linguistici di Nazarbaev hanno sollevato qualche perplessità estetica (alcune parole avrebbero avuto quattro lettere e quattro apostrofi) e molti dubbi funzionali (uno dei più decisivi argomenti a supporto del passaggio dall’alfabeto cirillico a quello latino è una maggiore aderenza allo Zeitgeist, attraverso l’adozione del sistema di scrittura dominante nell’era di Google; ma, se una parola kazaka dovesse differire da un’altra soltanto per la presenza di uno, due, tre o quattro apostrofi, la comodità di digitazione e ricerca su internet scomparirebbe del tutto). Nazarbaev è comunque tornato sulla sua decisione e, qualche giorno fa, ha promosso l’uso degli accenti al posto degli apostrofi.
Al di là dello “strano ma vero” e dei motteggi a metà strada tra Borat e Pascalistan che hanno avuto un comprensibile successo sui giornali di tutto il mondo, il cambio di alfabeto in corso in Kazakistan ha ricadute geopolitiche di un certo rilievo. Peraltro, anche limitandosi soltanto al quadrante di mondo compreso tra l’Europa orientale e l’Asia centrale, ci sono numerosi casi analoghi a quello kazako e soprattutto un precedente determinante: quello della Turchia. Alla fine degli anni Venti, Atatürk sentì di essere arrivato al culmine delle riforme con cui, in un brevissimo torno di anni, aveva cercato di trasformare in un paese europeo la Sublime Porta, che per ben più di mille e una notte era stata terra di sultani, pascià e harem: impose quindi alla Turchia, in un combinato che gli parve inscindibile, la secolarizzazione e l’abbandono della scrittura araba. Le resistenze di fronte a una scelta che divideva, con l’adozione di un diverso sistema di scrittura, il mondo musulmano furono molto forti. Eppure, nel gennaio del 1929, in Turchia divenne ufficiale per legge un alfabeto latino, adattato di persona da Atatürk alla lingua anatolica, con largo uso di dieresi e di altri segni diacritici.
La volontà di Mosca
Altri idiomi della famiglia turca – il kazako, ma anche il turkmeno, l’uzbeco e il chirghiso – seguirono un percorso analogo: le quattro lingue centroasiatiche, scritte inizialmente in caratteri arabi dai pochissimi alfabetizzati locali, passarono poi negli anni Venti del Novecento a sistemi di scrittura basati sull’alfabeto latino. Ma già intorno al 1940 i quattro Stan, ormai saldamente inseriti nell’Unione Sovietica, videro le loro rispettive lingue standardizzarsi in quattro diverse forme di cirillico. Con l’indipendenza negli anni Novanta, il Turkmenistan e l’Uzbekistan sono subito tornati ai caratteri latini. Il Kirghizistan ha invece mantenuto la sua forma di cirillico. E il Kazakistan è proprio ora in mezzo al guado. Per completare il quadro dei cinque Stan ex sovietici, manca soltanto il tagico. Anche questa lingua, è passata attraverso la stessa trafila alfabetica – scrittura araba, scrittura latina, scrittura cirillica – ma, come il chirghiso e, almeno finora, come il kazako, lì si è fermata, senza tornare alle lettere latine dopo il raggiungimento dell’indipendenza: peraltro il tagico, che è parente del persiano, non appartiene alla famiglia linguistica turca e non c’entra quindi nulla con gli altri quattro idiomi ufficiali della regione.
Il passaggio al cirillico delle cinque lingue degli Stan non è stato certo un capriccio del destino, ma è stato il frutto di una precisa pianificazione. A partire dagli anni ’40, e poi fino alla dissoluzione dell’Urss, ben dieci delle quindici lingue prevalenti nelle Repubbliche socialiste sovietiche erano scritte con varianti dell’alfabeto cirillico. Questo valeva, ovviamente, per il russo, ma anche per le altre lingue slave (bielorusso e ucraino), per una lingua neolatina (il moldavo), per cinque lingue della famiglia turca (azero, kazako, turkmeno, uzbeco e chirghiso) e per una lingua parente del persiano (tagico). Sfuggivano alla regola soltanto cinque lingue: l’armeno, che era provvisto di una scrittura propria di illustre tradizione; il georgiano, che era anch’esso provvisto di una scrittura propria ed era provvisto di un certo Iosif Vissarionovic Dzugasvili, meglio noto come Stalin; il lituano, il lettone e l’estone, che, scritti in caratteri latini, erano gli idiomi propri delle regioni più difficili da assimilare per l’impero sovietico (racconta Michael Beleites in “Viaggiare controvento”, da poco pubblicato da Keller: “Mi hanno chiesto spesso se avessi mai incontrato dei dissidenti in Lituania. La risposta è che in Lituania non ho mai avuto a che fare con non-dissidenti”).
In questo rapporto dieci a cinque è evidente la volontà di Mosca: la sovietizzazione attraverso la russificazione, se non linguistica (ma ci fu ovviamente anche quella) almeno alfabetica. Ed è quindi altrettanto evidente, tornando al Kazakistan, il sottotesto della decisione di Nazarbaev, così come il sottotesto delle precedenti, analoghe decisioni dei governanti turkmeni e uzbechi: segnare una distanza dalla Russia. E’ invece forse meno evidente, ma è altrettanto chiara, la scelta di non adottare direttamente la versione turca dell’alfabeto latino, che sarebbe già stata abbastanza attrezzata a rappresentare graficamente i suoni kazaki: Nazarbaev non vuole che il Kazakistan, appena allontanatosi da Mosca, sia subito inghiottito dal sistema gravitazionale Ankara-centrico.
Il cambio di alfabeto non è comunque un’operazione semplice. Ad esempio, quando l’Azerbaigian, a ridosso dell’indipendenza, sostituì il cirillico con l’alfabeto latino, ci fu un periodo di passaggio dai risvolti un po’ grotteschi, benché del tutto comprensibili. I quotidiani, ad esempio, introdussero con cautela i caratteri latini: li utilizzavano nei titoli e nei sommari, ma lasciavano in cirillico il testo degli articoli, per non sconvolgere, tutto d’un colpo, le abitudini dei lettori.
I risvolti politico-identitari
In quella parte del mondo, le scelte alfabetiche hanno quasi sempre delicati risvolti politico-identitari. Dal 1990 la Moldavia ha adottato per la sua lingua ufficiale, che è il rumeno, la scrittura latina in uso anche a Bucarest, eliminando il cirillico utilizzato quando il paese era parte dell’Urss. Ma in Transnistria – la fettina di Moldavia al di là del fiume Dnestr che, pur non riconosciuta come tale da nessuno (neanche dalla Russia), è di fatto indipendente da quasi trent’anni – il moldavo-rumeno, che è lingua coufficiale con il russo e l’ucraino, si continua a scrivere in cirillico, per esibire l’amicizia con Mosca e per marcarela distanza da Chisinau, da Bucarest e da Bruxelles. Allo stesso modo, mentre in Serbia l’alfabeto cirillico convive con quello latino, e anzi quest’ultimo tende sempre più a prevalere, tra i serbi di Bosnia la retrocessione del cirillico rimane un tabù – sennò come si farebbe a distinguere il testo in serbo dal testo in croato e da quello in bosgnacco nell’obbligatoria trilinguizzazione bosniaco-erzegovese, quasi sempre forzata, di quello che, fino all’inizio degli anni ’90, era il serbo-croato (o il croato-serbo) e cioè una lingua unica con minime varianti regionali? D’altronde, una delle soluzioni più durature ed efficaci trovate dai mediatori internazionali dopo la guerra in Bosnia è stata quella relativa alle targhe automobilistiche del paese balcanico. I leader dei bosniaci musulmani e croati mai avrebbero rinunciato all’alfabeto latino. I leader dei serbo-bosniaci mai avrebbero rinunciato al cirillico. I negoziatori dell’Onu escogitarono una regola tutt’ora in vigore: le targhe bosniache sono formate da tre numeri, una lettera e altri tre numeri. La lettera centrale può essere una “a”, una “e”, una “o”, una “j”, una “k”, una “m” oppure una “t”: sono tutte lettere che si scrivono allo stesso modo nell’alfabeto latino e in quello cirillico.