Israele ad alzo zero
La storia segreta della campagna di omicidi mirati e sabotaggi del Mossad contro i nemici dello stato
Ronen Bergman è un esperto di cose militari che scrive per il giornale israeliano Yedioth Ahronot e nel suo settore è molto quotato. Ha passato gli ultimi sette anni e mezzo a lavorare su un argomento che è molto difficile da raccontare, la campagna permanente di omicidi mirati e di sabotaggi compiuta dai servizi segreti di Israele in decenni di attività. Ha intervistato un migliaio di fonti e tra queste molti uomini di governo, dell’esercito e ovviamente dell’intelligence di Israele, ha scritto una bozza lunghissima, l’ha riassunta fino a ridurla della metà e ha ottenuto un libro di settecentocinquanta pagine che è uscito in inglese l’ultimo giorno di gennaio: Rise and Kill First, edizioni Random House. Il titolo è preso da un verso del Talmud: “Alzati e uccidi per primo”, che nella versione integrale dice: “Se qualcuno viene da te per ucciderti, alzati e uccidi per primo” e contiene una giustificazione per questo tipo di operazioni che continua a ricorrere in tutti i capitoli del libro: l’abbiamo fatto perché era necessario, altrimenti loro lo avrebbero fatto – o avrebbero continuato a farlo – a noi. Bergman è un cronista con una padronanza spaventosa dei dettagli, molto più che un apologeta. Sostiene che anche il Mossad, come tutte le organizzazioni di uomini e sebbene ce lo immaginiamo come una macchina fredda e razionale, a volte è guidato da impulsi perfettamente umani come il desiderio di vendetta, la rabbia o la vanità. Nel 2011 il capo di staff delle Forze armate lo ha accusato di essere una spia e uno degli uomini del Mossad che ha tentato di contattare gli ha risposto: “Disprezzo chiunque ti abbia dato il mio numero di telefono, proprio come disprezzo te”. Ma il lavoro di Bergman alla fine spiega perché il luogo comune corrisponde al vero, e quindi perché il Mossad gode di una fama leggendaria di servizio segreto capace di compiere operazioni impossibili. E spiega anche perché nei circoli dell’establishment di alcuni paesi arabi e dell’Iran – dove la paranoia è considerata una qualifica professionale e non una malattia – in così tanti sono nevrotizzati dall’esistenza dei servizi segreti israeliani e sono spinti ad attribuire qualsiasi fatto della vita e del mondo a una loro macchinazione. Anche quei circoli, come i lettori di Bergman, pensano: se questo è quello che trapela in un libro, in pubblico, figurarsi quello che fanno e ancora non è trapelato.
Un libro di Ronen Bergman racconta la campagna permanente di operazioni compiuta dai servizi segreti in decenni di attività
La figura centrale degli ultimi capitoli è Meir Dagan – direttore del Mossad dal 2002 al 2011 passato sotto i governi di Ariel Sharon, di Ehud Olmert e di Benjamin Netanyahu – che ha comandato le operazioni dell’intelligence israeliana dopo il trauma inguaribile dell’11 settembre, quando divenne chiaro a tutti fino a che punto era salito il livello di minaccia e che il mondo era diventato un luogo molto complicato da decifrare. Trascuri un gruppo di esuli arabi che si sono rifugiati in Afghanistan negli anni Novanta e ti trovi per le mani l’attacco terroristico più grave della storia. Meir Dagan teneva nel suo ufficio una fotografia del nonno materno, Ber Erlich Sloshny, avvolto nello scialle da preghiera e inginocchiato davanti a due soldati tedeschi – uno dei due fissa con un’espressione strafottente la macchina fotografica – durante un rastrellamento, poco prima di essere ucciso. Quando affidava a un agente del Mossad un’operazione particolarmente importante Dagan lo chiamava nel suo ufficio, gli mostrava la fotografia e gli spiegava che la maggior parte degli ebrei morti nell’Olocausto non aveva combattuto. “Non dobbiamo mai più finire in quella situazione di nuovo, in ginocchio e privati della possibilità di combattere per le nostre vite”.
Il tema più forte nelle pagine di Bergman in teoria è il dilemma etico. Può uno stato decidere di eliminare i suoi nemici e di creare una struttura apposta, dedicata a tempo pieno a questo scopo? E come fa a prendere la decisione migliore caso per caso? Si tratta in realtà di un quesito su cui è difficile concentrarsi. Forse è stato un interrogativo d’avanguardia nei decenni passati, adesso è una situazione normalizzata dalle notizie. Distinguere tra un tempo di pace e un tempo di guerra, tra un esercito avversario in uniforme regolare e un nemico letale in abiti civili oggi suona come un esercizio obsoleto – anche se non dovrebbe. Nel 2011 i commando americani sono atterrati in Pakistan per uccidere Osama bin Laden dentro la sua villa-rifugio. Sette anni più tardi non facciamo più caso al fatto che ogni mese un qualche capo dello Stato islamico che ha compiuto massacri – o che aveva promesso di compiere massacri – è localizzato e ucciso dai droni. Il dilemma etico che voleva essere l’asse portante del libro è ancora fortissimo e attuale, ma di sicuro siamo noi a essere desensibilizzati.
Cosi altri temi catturano di più l’attenzione. Uno è la necessità suprema dell’autocontrollo quando si dispone di un potere così grande. In un capitolo si racconta la storia di come gli israeliani dessero una caccia ossessiva al capo dell’Olp palestinese, Yasser Arafat, e di come un giorno il Mossad lo rintracciò mentre s’imbarcava su un piccolo aereo privato che stava decollando da Atene. L’aviazione di Israele fece alzare un jet con l’ordine di abbattere l’aereo di Arafat, ma il comandante tenne in attesa il suo pilota perché non si fidava dell’identificazione fatta dagli agenti ad Atene e voleva una conferma definitiva. Invece che il leader palestinese, sull’aereo c’era suo fratello che faceva il dottore assieme con trenta bambini che erano in viaggio per essere curati. I servizi segreti si accorsero in tempo dell’errore, il pilota con il dito sul grilletto fu richiamato e Israele evitò quello che sarebbe stato un disastro davanti agli occhi di tutto il mondo.
Le difficili operazioni per uccidere il capo militare di Hezbollah Mughniyeh e il generale siriano Suleiman
Un secondo tema molto forte è la sensazione di avere finalmente sotto gli occhi le soluzioni dei tanti rebus che in questi anni hanno reso misteriosa la cronaca del del medio oriente degli ultimi anni. L’attacco aereo preventivo di Israele contro i siti nucleari dell’Iran, che una volta arrivò a meno trenta giorni dall’essere lanciato – se ne era parlato tantissimo sui giornali, ma senza avere mai una data precisa in mano. La morte degli scienziati che in Iran si occupano del programma di ricerca atomico, di nuovo un tema molto trattato sui media ma senza avere informazioni in mano. La guerra clandestina, colpo su colpo, tra Israele e il gruppo libanese Hezbollah e il governo di Bashar el Assad in Siria. E’ come assistere al replay di vicende che più o meno già si conoscevano, ma questa volta da un’altra angolazione e con uno zoom aumentato.
Prendiamo la distruzione di un reattore nucleare segreto nell’est della Siria nel settembre 2007. Il presidente Bashar el Assad era convinto che qualsiasi comunicazione attraverso mezzi moderni in Siria fosse intercettata da Israele, via telefono, internet, fax, radio: il che è difficile da credere e anche tecnicamente irrealizzabile, ma rende bene il clima di sospetto permanente che si respira a Damasco. Per aggirare la sorveglianza, il rais aveva chiesto a un suo generale, Mohammed Suleiman, di creare un piccolo esercito parallelo, della cui esistenza l’esercito regolare era all’oscuro, che per comunicare usava soltanto corrieri in motocicletta con messaggi sigillati con la cera. Grazie a questa segretezza i siriani cominciarono a costruire un reattore nucleare in grado di produrre combustibile utilizzabile per un’arma atomica, ma uno degli uomini di Suleiman commise un errore e durante un viaggio a Ginevra, in Svizzera, lasciò alcuni progetti del reattore dentro la sua borsa nella camera dell’hotel. Una donna lo abbordò nella hall, gli fece perdere tempo davanti a un bicchiere di vino – che lui offrì con prontezza – mentre una squadra apriva la porta della camera, fotografava il contenuto della borsa ancora senza sapere cosa fosse e poi usciva senza lasciare tracce. Quando una settimana dopo gli israeliani capirono che si trattava di un reattore nucleare, e che andava distrutto prima che entrasse in funzione e diventasse ancora più pericoloso, nacquero due scuole di pensiero: una che sosteneva che Assad avrebbe reagito all’umiliazione dichiarando una guerra di rappresaglia contro Israele, l’altra che credeva che Assad avrebbe incassato senza reagire, che non avrebbe imboccato la strada dell’escalation, a patto che l’operazione fosse condotta con molta discrezione e non fosse seguita da nessuna spiegazione ufficiale. Il direttore Dagan era il capofila di questa seconda scuola. Così a settembre durante un’esercitazione militare che era stata ampiamente pubblicizzata e che quindi i vicini arabi osservavano con un occhio chiuso dalla distrazione, sette aerei israeliani si staccarono dal resto della formazione, cambiarono rotta, varcarono il confine siriano, rasero al suolo il reattore semicostruito e rientrarono prima che il sistema di difesa aereo nemico riuscisse a rispondere. I due governi – Gerusalemme e Damasco – non dettero spiegazioni e negarono l’esistenza di un reattore, i giornali raccontarono quel che poterono con dettagli molto scarni e la questione si chiuse senza lo scoppio di un conflitto.
Meir Dagan e una vecchia foto: “Non dobbiamo mai più finire in ginocchio e privati della possibilità di combattere per le nostre vite”
Prendiamo, pochi mesi più tardi, l’operazione per uccidere Imad Mughniyeh, imprendibile ed efficientissimo capo militare di Hezbollah, che aveva scelto di lavorare da Damasco, capitale della Siria, e non a Beirut, capitale del Libano, proprio perché sapeva di essere sulla lista dei bersagli e voleva stare più al sicuro. Per arrivare a lui il Mossad contravviene a una delle sue regole ferree, quella di non condividere azioni con altri stati e altri servizi segreti. In questo caso invece chiama la Cia e si fa aiutare nella localizzazione di un bersaglio che si muove in Siria a inizio 2008, quindi un paese dove i cittadini americani hanno ancora la possibilità di muoversi ma gli israeliani non possono ovviamente penetrare – almeno ai livelli che servono per questo tipo di attività (in un altro punto del libro si dice che una squadra mandata a Dubai per eliminare un capo di Hamas era formata da ventisette persone, tutte con finti passaporti di altri paesi, ma la Siria è formalmente in guerra con Israele, i rischi sarebbero troppo alti). Gli americani localizzano Mughniyeh, che vive una vita discreta fatta di incontri con gli altri leader del cosiddetto asse della Resistenza, quindi Iran, Hamas e Siria, in alcuni edifici messi a disposizione da Assad, e di visite galanti a tre amanti anche quelle messe a disposizione dal governo siriano. Gli israeliani pensano a come bucare la sicurezza professionale fornita a Mughniyeh da quella stessa forza segreta messa in piedi da Assad per coprire la costruzione del reattore. Scartano l’idea di piazzare una piccola carica esplosiva nel suo telefonino, da far detonare quando lo porta all’orecchio, perché lo cambia di continuo. Si rendono conto che l’unico elemento fisso accanto al capo di Hezbollah è la sua auto, un fuoristrada Mitsubishi Pajero color argento. Riescono a contrabbandare in Siria una finta ruota di scorta per Pajero imbottita di esplosivo e dotata di microfoni e telecamere per capire cosa succede nei dintorni. Una notte smontano la ruota di scorta vera, attaccata al retro della macchina, e la sostituiscono con la loro, poi cominciano una paziente opera di sorveglianza. Hanno promesso agli americani che uccideranno soltanto lui, quindi devono aspettare l’occasione giusta. In sei settimane arrivano all’attimo prima di premere il bottone in una trentina di occasioni, ma alla fine c’è sempre qualche cosa che consiglia di rimandare. Un giorno accanto a Mughniyeh c’è una figura conosciuta, il generale iraniano Qassem Suleimani, architetto di tutte le operazioni militari dell’Iran in medio oriente, dall’Iraq alla Siria al Libano. E’ l’uomo che in questi anni ha salvato Assad dalla guerra civile – fu lui a convincere il presidente russo, Vladimir Putin, della necessità di intervenire nel 2015 – e in cambio si sta prendendo il suo paese per usarlo come una grande postazione militare contro Israele. Ma il Mossad ha promesso agli americani, in cambio della loro collaborazione, che soltanto Mughniyeh sarebbe stato il bersaglio e quindi non fanno detonare la bomba (un gesto che avrebbe cambiato la storia del medio oriente come la conosciamo). Quando poi fanno esplodere la bomba, per i siriani e per Hezbollah è la conferma delle loro peggiori paure: Mughniyeh muore sotto le finestre del quartier generale dell’intelligence siriana, gli israeliani in qualche modo hanno perforato il sistema di protezione. Assad è in panico, chiede persino a Hezbollah di spostare il pajero a Beirut in modo da far credere che il loro comandante è morto in Libano e non in Siria, quelli rifiutano con sdegno e lo accusano di non avere fornito una protezione adeguata. E’ febbraio, ad agosto gli israeliani uccidono anche il generale siriano Suleiman (da non confondere con l’iraniano Suleimani), l’uomo a cui Assad aveva ordinato di creare una forza clandestina e impenetrabile dall’esterno. Due cecchini delle forze speciali sbarcano su una spiaggia siriana vicino Tartous, aspettano che il generale arrivi a cena con la moglie e un gruppo di amici nella sua villa con terrazza sul mare, gli sparano sei colpi da angolazioni diverse, fuggono con gommoni, lasciano sulla spiaggia alcune sigarette dozzinali di marca siriana per far credere che si tratti di un qualche regolamento di colpi interno. La notizia scompare dai giornali occidentali dopo tre giorni di speculazioni, non scompare dalle conversazioni in medio oriente. Dieci anni dopo a noi viene da sorridere quando leggiamo che in qualche nazione araba gli uccelli migratori con un chip legato alla zampa per seguirne i movimenti – un espediente innocente da studiosi della natura – sono scambiati per un qualche piano del Mossad, ma tendiamo a scordare questi precedenti.
Un dilemma etico: può uno stato decidere di eliminare i suoi nemici e di creare una struttura dedicata a tempo pieno a questo scopo?
E si potrebbe andare avanti, a raccontare per esempio anche i fallimenti, come il tentativo disastroso nel 1997 di uccidere il capo di Hamas Khaled Mashal in Giordania, spruzzandogli veleno sul collo da distanza ravvicinata con un congegno nascosto nella manica di un killer, che è accompagnato da un complice che deve aprire nello stesso esatto momento una lattina di coca-cola per coprire il rumore e far credere alla vittima di essere stato spruzzato per sbadatezza. La squadra s’addestra a fare questo esercizio per le strade di Tel Aviv, spruzzando con una sostanza neutra turisti ignari. Mashal è ancora oggi il leader di Hamas.
Il libro di Bergman s’arresta a qualche anno fa, a prima della rivoluzione siriana, perché nessuno parla delle operazioni più recenti ed è un peccato. Sarebbe interessante, per esempio, sapere perché nell’autunno 2015 una decina di alti ufficiali iraniani impegnati in Siria morì nel giro di poche settimane, oppure di come gli israeliani sono riusciti a penetrare una cellula dello Stato islamico che a Raqqa preparava attentati sugli aerei di linea – una vicenda che conosciamo soltanto perché il presidente americano Donald Trump ne ha parlato incautamente durante una visita dei russi alla Casa Bianca.