Non solo dazi. Perché Gary Cohn è fuggito dal reality di Trump
La sconfitta sui dazi del capo dei consiglieri economici della Casa Bianca è stata soltanto il casus belli che ha portato all’inevitabile
New York. Il capo dei consiglieri economici della Casa Bianca, Gary Cohn, ha dato le dimissioni dopo l’annuncio dei nuovi dazi su acciaio e alluminio, una vittoria della squadra protezionista capitanata dal segretario del Commercio, Wilbur Ross, e dal consigliere Peter Navarro, testa di ponte della guerra commerciale con la Cina. I mercati hanno accolto con contrazioni e flessioni preoccupate la dipartita del garante degli interessi di Wall Street che ha passato l’ultimo anno a rassicurare, con le parole e con i fatti, la comunità finanziaria preoccupata da barriere doganali e ridiscussione dei trattati commerciali. L’ex presidente di Goldman Sachs era stato chiamato – a sorpresa – da Donald Trump alla Casa Bianca per contrastare con dosi di liberoscambismo le pulsioni protezioniste che erano al centro del messaggio trumpiano, secondo la logica dei contrasti e degli antagonismi interni che il presidente ha sempre seguito e che ha rivendicato dopo l’uscita di scena del consigliere: “La nuova narrativa della Fake News dice che c’è il caos alla Casa Bianca. Sbagliato! Le persone vanno e vengono sempre, voglio un forte dialogo prima di prendere una decisione finale. Ci sono alcune persone che vorrei cambiare (cerco sempre la perfezione). Non c’è caos, c’è grande energia!”, ha twittato il presidente, che con i suoi metodi di esclusione mutuati dal format di un reality show ha di recente allontanato anche Hope Hicks, che era nella squadra dal primo giorno della campagna elettorale.
La sconfitta di Cohn sui dazi è stata soltanto il casus belli che ha portato all’inevitabile. Era stata l’assunzione originaria la notizia scioccante, non il divorzio lungo il percorso. Ormai l’occhio degli osservatori si è abituato al groviglio di contraddizioni e incoerenze del trumpismo, ma all’inizio dell’esperienza di governo la nomina di Cohn era in tensione con quasi tutto ciò che il candidato aveva detto e promesso in campagna elettorale. Era il perfetto esempio di un matrimonio politico insostenibile. A questo perfetto esemplare dell’odiato “uomo di Davos” Trump aveva affidato la guida della politica economica, cosa che aveva fatto imbestialire Steve Bannon e la pattuglia nazionalista.
La prima fase dell’Amministrazione è stata segnata da una battaglia logorante fra due fazioni riconducibili a Bannon e Cohn, quest’ultimo a capo della cosiddetta “corrente di New York”. Il leader nazionalista è stato disarcionato mentre Cohn inanellava alcune importanti vittorie politiche misurabili, innanzitutto la riforma fiscale, e si affermava come moderatore delle istanze protezioniste della fazione avversaria, fin qui relegata da Trump a un ruolo minoritario. Per mesi il presidente ha ascoltato innanzitutto la voce di Cohn, il quale si è circondato di alleati nei vari consessi della Casa Bianca, a partire da Dina Powell nell’orbita del consiglio per la Sicurezza nazionale, dove potevano contare sull’appoggio del generale H.R. McMaster, altra pedina traballante nello schema in continua evoluzione della Casa Bianca. Ad agosto dello scorso anno, dopo i fatti di Charlottesville, Cohn era stato a un passo dalle dimissioni, e Trump, che odia sopra ogni cosa l’essere contraddetto in pubblico, aveva preso nota delle dichiarazioni critiche del consigliere che erano uscite sui giornali. Cohn è rimasto in sella perché sapeva che Trump non avrebbe potuto fare a meno del governo ombra di Goldman Sachs, e non è un mistero che l’ex presidente della banca d’affari sperasse di essere considerato per la successione di Janet Yellen alla Fed. La nomina non è mai arrivata, sono arrivati invece compiti che non impiegano “più del venti per cento del mio cervello”, come ha daetto Cohn secondo alcune fonti della West Wing. La battaglia sui dazi è stata soltanto il colpo di grazia.