Cosa andrà storto nell'accordo tra Corea del nord e resto del mondo? Le previsioni degli esperti
Pyongyang dice di voler sospendere il programma missilistico e “normalizzare” il rapporto con gli Stati Uniti. Ma spesso ha finto di prendere accordi, o ha preso accordi e poi li ha traditi
Roma. Dovete pensare a una delle strisce più celebri dei Peanuts, quella del football. L’episodio, disegnato da Charles Schulz in varie versioni sin dagli anni Cinquanta, racconta di Lucy che convince Charlie Brown a giocare a football, Charlie Brown che prende la rincorsa per calciare la palla e Lucy che gliela sfila via subito prima dell’impatto con il piede, facendolo volare per terra. E’ così che Robert Gallucci, il più famoso negoziatore americano con la Corea del nord, fedelissimo dei Clinton e artefice dell’accordo sul nucleare del 1994, descrive il rapporto di Pyongyang con il resto del mondo: “Per anni gli Stati Uniti sono stati nella posizione di Charlie Brown, mentre la Corea del nord impersonava Lucy. Eravamo sempre pronti, annunciavamo cose meravigliose, e poi Lucy ci toglieva la palla”, ha detto ieri il diplomatico al Washinton Examiner. Da quando il riavvicinamento tra Corea del nord e Corea del sud si è concretizzato, molti analisti hanno iniziato a diffidare dell’entusiasmo espresso dalla comunità internazionale. Perché, come spiega la vignetta citata da Gallucci, spesso la Corea del nord ha finto di prendere accordi, o ha preso accordi e poi li ha traditi (“si può fare un buon deal anche se l’altra parte tradisce”, dice, “ma è sempre meglio mettere in sicurezza il paese e i propri alleati”). Dunque, per Gallucci, la soluzione è “non credergli, non fidarsi, e poi verificare”. Il problema è che i nostri schemi con il cosiddetto “stato eremita” dell’Asia orientale, che poi così eremita non è, si basano sulle vecchie dinamiche, ma sono le uniche che conosciamo. E allora: cosa può andare storto in questo deal, semmai arriveremo a un deal?
Secondo Benjamin Young, PhD in Storia coreana alla George Washington University, lo scenario peggiore potrebbe manifestarsi nel caso in cui “Corea del sud e Stati Uniti non fossero d’accordo sulla garanzia di sicurezza in cui spera la Corea del nord. L’Amministrazione Moon potrebbe chiedere alle Forze armate americane di lasciare la penisola. E Washington potrebbe rispondere di no, causando un’enorme spaccatura nella relazione tra America e Corea del sud. Pyongyang potrebbe quindi approfittare dello scontro fiancheggiando la Corea del sud e sollecitando una maggiore cooperazione economica tra le due Coree”. Ma prima di tutto questo, per Young “la Corea del nord potrebbe non fare passi concreti per la denuclearizzazione, e al contrario drenare lentamente soldi dalle casse sudcoreane, iniziando a minacciare l’opzione nucleare qualora i pagamenti cessassero”. D’altra parte, spiega Young, “Kim Jong-un decide da una posizione di forza: ha pochissime opposizioni interne e ha appena completato il suo arsenale nucleare. Allo stesso tempo a Seul c’è un’Amministrazione di sinistra che sembra troppo impaziente di pacificarsi con Pyongyang”.
In questo clima, c’è un terzo attore fondamentale nell’equilibrio del deal, che negli ultimi mesi è rimasto molto silente, ed è la Cina: “A Pechino non amano la volatilità di Kim Jong-un, ma non vogliono neanche una guerra al confine. La Cina è nervosa perché Trump potrebbe iniziare una guerra nella penisola, ed è una delle ragioni per cui i cinesi stanno per una volta facendo applicare le sanzioni. Credo che questa natura anticonformista di Trump sia alla base delle preoccupazioni di Pechino”. E quindi le sanzioni economiche, eluse sistematicamente dalla Corea del nord grazie all’aiuto di altri stati, come rivelato dagli annuali report delle Nazioni Unite, a qualcosa sono servite: “La rivelazione della connessione con la Siria riguardo alle armi chimiche non è stata poi così choccante”, dice al Foglio William Newcomb, visiting scholar allo US-Korea Institute della Johns Hopkins SAIS, collaboratore del sito 38th North ma soprattutto ex membro di quella commissione dell’Onu che studia il funzionamento delle sanzioni: “L’omicidio del fratellastro di Kim con il nervino VX ha mostrato la capacità e la volontà di Pyongyang di usare le armi chimiche. Ciò che sapremo tra una settimana, quando il report degli esperti dell’Onu sarà pubblico, mostrerà l’importanza e rafforzerà l’urgenza di far riuscire questi negoziati e porre fine al programma nordcoreano che minaccia la pace e la sicurezza. Quei dati ci serviranno anche come lente attraverso la quale il mondo potrà vedere la vera natura del regime, in netta contrapposizione con la maschera indossata durante i Giochi olimpici”.
Del potere di Kim Jong-un, terzo nella generazione dei Kim a guidare la Corea del nord sin dalla fine del 2011, non sappiamo un bel niente. Nessuno ha mai negoziato con lui, non esiste un profilo psicologico attendibile. Nel corso del 2017 si è arrivati a una crisi tra Corea del nord e resto del mondo che sembrava impossibile da fermare: 23 test missilistici, compreso il primo missile balistico intercontinentale il 4 luglio scorso. Due mesi dopo, Kim ha autorizzato il sesto test atomico del paese. Nel frattempo l’America, con Donald Trump alla Casa Bianca, ha completamente cambiato il linguaggio nei confronti della Corea del nord: finita l’èra della “pazienza strategica”, Trump ha annunciato di voler sistemare la questione nordcoreana e ripete tutt’ora, come un mantra, che “tutte le opzioni sono sul tavolo”, compresa quella militare. Poi, nel discorso di Capodanno, Kim ha risposto alle numerose offerte di dialogo da parte della Corea del sud, ed è in un clima di incredulità generale che alla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi invernali sudcoreane Pyongyang ha mandato Kim Yo-jong, sorella di Kim Jong-un.
Fotografie storiche, strette di mano, polemiche. Poi si è passati alla fase operativa, cioè con una delegazione di Seul a Pyongyang che ha annunciato il terzo summit intercoreano della storia, che si terrà a fine aprile, con un incontro sul 38° parallelo tra Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in. Ma la Corea del nord ha espresso anche la volontà di sospendere il programma missilistico e nucleare e di “normalizzare” il rapporto con gli Stati Uniti. La delegazione sudcoreana tra ieri e oggi è volata alla Casa Bianca per spiegare “alcuni dettagli” che non era possibile rivelare pubblicamente – anche perché, dopo le dimissioni di Joseph Yun, da trent’anni diplomatico a capo della questione nordcoreana, e con l’ambasciatore americano a Seul ancora da nominare, l’Amministrazione Trump fa perfino fatica a distinguere la Corea del nord e la Corea del sud. In tutto questo caos, c’è un ulteriore peggior scenario da considerare: se poi, di nuovo, ci sfilassero la palla?