Non solo dazi sull'acciaio: guardate la guerra commerciale digitale
Dal caso Broadcom ad Apple, gli stati impongono barriere alte alla libera circolazione dei servizi e delle informazioni online
Roma. I dazi sull’acciaio hanno un sapore novecentesco. Sono qualcosa che ci si può aspettare da Donald Trump, uno che pur usando Twitter compulsivamente non ha mai imparato a far funzionare un computer. “L’acciaio è acciaio. Se non hai acciaio non hai un paese”, ha twittato il presidente degli Stati Uniti la settimana scorsa, introducendo i ben noti dazi su acciaio e alluminio come preludio di una possibile nuova guerra commerciale. Secondo gli analisti, se davvero dovesse cominciare una guerra commerciale globale – se, cioè, ai dazi sui metalli dovesse fare seguito una risposta europea e magari cinese, e poi un contrattacco di Trump, e così via – la crescita dell’economia mondiale, che oggi sta moderatamente riacquistando vigore, potrebbe trasformarsi in una nuova recessione. Ma mentre Trump riesuma battaglie economiche novecentesche, c’è un altro tipo di guerra commerciale di cui già da tempo si vedono sintomi preoccupanti in tutto il mondo.
Sul Financial Times di ieri, la columnist Rana Foroohar ha ricordato alcuni dati interessanti del McKinsey Global Institute: mentre il commercio a livello globale di beni fisici (come l’acciaio, appunto) è stagnante o ha un basso livello di crescita da quasi un decennio, l’interscambio di informazioni, beni e servizi digitali è cresciuto di 45 volte dal 2005 a oggi. I commerci e i flussi di informazione digitali sono oggi la principale forza motrice della globalizzazione, e una guerra commerciale digitale sarebbe tanto pericolosa quanto una guerra commerciale tradizionale (il Financial Times rischia e dice: sarebbe perfino più pericolosa). Non solo: mentre iniziamo a vedere soltanto adesso i risultati del nazionalismo economico dell’Amministrazione Trump sui commerci tradizionali, il nazionalismo digitale è invece un fatto accertato e un fenomeno che peggiora di anno in anno. Gli stati erigono barriere alte intorno a internet e alla tecnologia usando i dazi, facendo intervenire il sistema giudiziario, applicando limitazioni alla libera impresa. Per anni il fenomeno è stato un’esclusiva dei paesi autoritari – quelli che più hanno da perdere dall’interscambio libero delle informazioni – ma di recente anche le democrazie hanno iniziato ad applicare politiche commerciali sempre più restrittive per quanto riguarda la tecnologia e il digitale. Non siamo ancora arrivati a una guerra commerciale digitale, ma ci sono molti segnali preoccupanti.
Il caso nato intorno al deal Broadcom-Qualcomm è un esempio plastico di questo atteggiamento. Broadcom, azienda singaporeana specializzata in semiconduttori, non può acquisire il concorrente americano Qualcomm perché la Casa Bianca teme che il deal possa avvantaggiare la Cina. Trump ha bloccato l'operazione lunedì sera usando argomenti di sicurezza nazionale, e ha fatto capire in buona sostanza che vuole difendere il proprio “campione nazionale” contro le influenze straniere. In questo modo, Washington si allinea alle politiche di Pechino, che da anni protegge e promuove i propri campioni nazionali nel campo della tecnologia. Al posto del contagio liberale che l’occidente aveva sperato per la Cina, stiamo assistendo al fenomeno contrario: il modello di chiusura economica cinese si sta imponendo sul resto del mondo, e l’economia digitale è il principale vettore di questo cambiamento. Ancora per timore della Cina, l’Amministrazione Trump qualche mese fa aveva perfino accarezzato l’idea della nazionalizzazione parziale della rete 5G, infrastruttura strategica, riportando sulla bocca degli addetti ai lavori di Washington una parola – nazionalizzazione – che sembrava dimenticata da decenni.
Non è un caso che la Cina sia sempre al centro di queste controversie. Pechino è il principale fautore a livello globale del nazionalismo digitale. Non solo perché ha anni di esperienza nel bloccare – per ragioni di censura interna – il flusso delle informazioni attraverso internet, e nel rendere il suo mercato digitale, il più grande del mondo, un giardino privato in cui Google e Facebook non possono entrare e i campioni nazionali come Tencent e Sina hanno modo di prosperare. Usando il suo peso economico, la Cina sta imponendo il suo modello protezionista anche fuori dai suoi confini. L’esempio più evidente è Apple, l’azienda del “think different”, che il mese scorso ha dovuto conformare il suo pensiero a quello del Partito comunista quando ha ricevuto un ultimatum: o lasciate in Cina tutti i dati dei vostri utenti cinesi o siete fuori dal paese. Apple ha dovuto cedere a un’azienda cinese il controllo fisico dei server che contengono i dati di tutti i possessori di iPhone e iPad in Cina, affinché il governo possa averli sempre a disposizione. E’ una misura protezionistica che potrebbe avere brutte conseguenze a livello di censura, e che distorce l’architettura stessa di internet. Misure simili sono già in vigore in stati come la Russia, dove il nazionalismo digitale è fortissimo, ma sono allo studio anche di paesi formalmente democratici come il Brasile e l’India.
Anche in occidente il nazionalismo digitale è forte. In un certo senso, la battaglia che tutte le capitali europee hanno combattuto (e in ultima analisi vinto) contro Uber può essere iscritta in questa categoria. Certo, le proteste dei tassisti hanno giocato un ruolo fondamentale, ma la forza con cui molti legislatori si sono scagliati contro l’azienda americana sa di protezionismo contro il servizio di trasporti yankee. Perfino nelle inchieste della commissaria europea alla Concorrenza Margrethe Vestager contro Google e Facebook c’è l’istinto di creare una specie di barriera Antitrust intorno al consumatore del Vecchio continente per difenderlo dall’intrusione continua dei giganti americani di internet.
In questo senso, se davvero gli europei volessero rispondere ai dazi trumpiani (anche se sono in corso colloqui su possibili esenzioni) usando un simbolismo efficace, non dovrebbero colpire le Harley Davidson, un bersaglio un po’ anacronistico, ma Google. Se non lo fanno è perché, grazie al cielo, perfino i burocrati di Bruxelles sanno che questo si significherebbe riportare il processo di globalizzazione indietro di due decenni.