Vladimir Putin (foto LaPresse)

L'uomo forte e il virus che da Mosca si propaga tra le democrazie liberali

Giuliano Ferrara

Il rischio è l'irradiarsi mondiale di un'avversione per le procedure e le forme. Perché i metodi alla Putin diventano bandiera, fronte di opposizione al comportamento delle disprezzate élite

Uno non se la può sbrigare buttandola in farsa. Le elezioni presidenziali in Russia sono state infatti una farsa. La popolarità di Putin, salvatore del paese dal caos e uomo forte nella tradizione russa, e non solo russa, è fuori discussione. Ma la competizione democratica è stata ridicola. La vita sociale, istituzionale, politica russa prevede tutte le finzioni di una democrazia presidenziale elettiva, ma è in realtà una fioritura di conformismi dissimulati sotto l’occhiuta sorveglianza di una classe dirigente manovrata da un uomo solo al comando. Candidati e candidate di comodo, lanci di aranciate nei talk show elettorali, insulti e spintoni tra marionette del teatro putiniano come la Sobciack e Jirinovski, accensione di accuse giudiziarie inverificabili sul candidato comunista, un miliardario pseudo sovkoziano uscito da chissà dove, e su tutto un padre della patria sicuramente eletto in partenza, nel più pieno controllo del sistema mediatico, che si comporta come un uomo del destino al di sopra delle parti mentre bastona chiunque gli manchi di rispetto, lasciando sotto il tavolo della demokratura briciole di dissenso sparpagliate, inoffensive, grottesche. Il pugno di ferro di Xi Jinping, eletto virtualmente a vita successore di Mao con il 100 per cento, in confronto è una tragedia. La dittatura del partito unico su una società di mercato rampante, anch’essa controllata al millimetro, al paragone è una cosa seria.

 

Però è tutto vero quel che dicono gli esperti russologi e i partigiani dell’amicizia e della distensione con la Russia, questo gigante ubriaco e sempre malato, grandiosamente tolstoiano e depressivamente dostoevskiano, con il quale o senza il quale le democrazie occidentali ed europee hanno in ogni tempo faticato a vivere e convivere, salvo il piccolo particolare che fu il patto Ribbentrop-Molotov a scatenare la seconda guerra mondiale e fu l’alleanza con gli eroi di Stalingrado a portare la salvezza dalla barbarie dei nazifascismi. Putin viene da una grande scuola politica, e ha talento personale indubbio, ha coraggio, sfrontatezza, una incommensurabile avidità di potere personale, ha capito il suo paese, opinione diffusa e burocrazie, apparati della forza e ideologie, e ha trovato nella demokratura oligarchica il sistema proprio adatto a dominare il caos postcomunista e a rilanciare un’identità fatta anche di valori nazionali garantiti dall’ortodossia religiosa tradizionalista. In questo senso, chapeau. I buchi enormi nella gestione dell’economia, i rischi di una politica estera e di potenza difensiva e d’attacco, fondata sul potere dell’intimidazione e della più spietata Realpolitik, la fragilità tipica di ogni avventura che non crea intorno ai poteri di casta una salda struttura istituzionale, tutto questo si vede oltre le cifre della partecipazione al voto, ma conta relativamente poco.

 

Il vero problema è che Putin si è fatto modello, ha cominciato a esercitare un’influenza internazionale notevole e crescente, come si è visto nell’elezione di Trump e nella sua conduzione del primo anno alla Casa Bianca, come si vede dal fatto che da Sarkozy ai nazionalisti e sovranisti europei la nozione di democrazia liberale sta diventando, come il riformismo secondo la lezione di Sergio Cofferati, una “parola malata”, una formula malata, una sindrome da impotenza. Nonostante il churchillismo verboso di Boris Johnson e qualche segno di intolleranza occidentale ed europea verso gli eccessi kagebisti di Putin, il rischio non è l’avvio di una nuova guerra fredda, come teme Hélène Carrère d’Encausse, ma l’irradiarsi mondiale di un sostanziale disprezzo, all’ombra degli uomini forti sempre più energici sul teatro del mondo e sempre più popolari, per le procedure e le forme, che è il sale delle democrazie diluito nei dubbi tormentosi sugli effetti della globalizzazione.

 

Senza un potere centrale deciso e indifferente alla norma, al sistema dei pesi e contrappesi, molta gente si sente espropriata delle sue radici e cerca in mille altri rivoli di avventura una compensazione. E qui i metodi alla Putin, anche il modo farsesco in cui si dipana il gioco cartaceo delle presidenziali nel paese più vasto del mondo, diventano bandiera, fronte di opposizione al comportamento delle disprezzate élite. Sospetto che sia questo il grande problema politico del nostro futuro, e le semplificazioni e distorsioni del nuovo sistema di comunicazione e scambio di informazioni ed emozioni hanno tutto il carattere di una trappola sfavorevole a chi voglia affrontarlo con una misura di responsabilità.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.