Il piano di Erdogan
I turchi creano un nuovo pezzo di Siria e offrono chance ai perdenti della guerra (sulla pelle dei curdi)
Roma. Attenzione a quello che sta accadendo nel cantone di Afrin, nel nord della Siria, perché l’operazione militare lanciata dalla Turchia sta imprimendo una nuova direzione alla guerra civile cominciata sette anni fa. La notizia principale è che domenica i soldati turchi e i gruppi armati siriani loro alleati hanno preso e saccheggiato con brutalità Afrin, capoluogo dell’unico cantone curdo lasciato fuori dalla protezione dei jet americani. Dopo che a ottobre il sogno di autonomia dei curdi dell’Iraq è stato ridimensionato con la forza dalle truppe irachene comandate dal governo centrale di Baghdad – che hanno spazzato via le pretese di formare uno stato separato – questa volta è toccato ai curdi siriani, che si sono dovuti ritirare dal cantone dopo due mesi di offensiva delle truppe turche. Del resto i curdi di Afrin erano diventati il soggetto più debole della Siria, non hanno le divisioni corazzate a disposizione delle truppe di Assad, non hanno la copertura aerea di nessuno e infine non hanno il fanatismo omicida dei guerriglieri dello Stato islamico. Come l’acqua trova naturalmente il suo livello, così anche loro, lasciati soli dall’America e dalla Russia, hanno dovuto arretrare. Ma oltre alla notizia quello che conta ancora di più è la proiezione di quello che verrà dopo.
Prima dell’operazione ordinata dal rais turco Erdogan i ribelli siriani erano chiusi in due enclave separate destinate a soccombere. Quella più piccola a nord di Aleppo era in pratica una riserva indiana protetta dai soldati turchi. Quella più grande attorno alla città di Idlib è infestata da gruppi terroristici e dominata dalla presenza di Hayat Tahrir al Sham (sigla Hts), il gruppo nato dai qaidisti in Siria. Ma il collasso e la ritirata dei curdi da Afrin ora ha ricongiunto le due enclave, creando una zona molto grande che condivide un confine molto lungo con la Turchia alleata, scende giù fin quasi a Hama a sud. I turchi ora vogliono fare due cose. La prima è riversare dentro la Siria i profughi siriani – quasi tre milioni e mezzo – che vivono in Turchia. Secondo le prime stime intendono piazzarne tra trecentomila e mezzo milione nel cantone di Afrin, e da questo ricaveranno un doppio beneficio: il primo è che sostituiscono i curdi ostili con arabi riconoscenti, il secondo è che finalmente fanno rientrare in Siria i profughi siriani, che non sono più tollerati dalla popolazione turca – è un raro caso in cui i turchi sono in maggioranza furiosi con la politica di Erdogan. La seconda cosa che vogliono fare i turchi è rafforzare i gruppi di ribelli sotto la loro influenza per fare la guerra a qaidisti e gruppi terroristici sparsi. A questo fine hanno creato un supergruppo dalla fusione di alcune fazioni potenti che si chiama Jabhat Tahrir Souria e che ha già cominciato a fare la guerra ai filoqaidisti (in breve: Jts contro Hts). Questo vuol dire che l’operazione Ramo d’ulivo riapre una situazione già chiusa. Dove c’era una regione assediata e destinata a capitolare sotto i bombardamenti massicci della Russia e davanti alla pressione di Damasco (come sta facendo la Ghouta in questi giorni), in proiezione ci potrebbe essere una regione molto larga a forma di L rovesciata, con tre milioni di siriani che rientrano e vivono al di fuori del controllo di Assad e gruppi armati avversari di al Qaida in posizione dominante. E la Turchia avrebbe per la prima volta da anni un interesse vivo a tenere così la situazione, per non dovere accogliere una nuova ondata di profughi e non assistere al ritorno dei curdi sul confine. La tripartizione della Siria tra assadisti protetti da Russia e Iran che controlleranno le città più importanti ma non riavranno indietro “ogni centimetro di territorio” come promesso da Assad, antiassadisti sotto l’ala turca compressi in una Striscia di confine che al confronto farà apparire Gaza come una zona di campagna leggiadra e infine curdi nella Siria orientale protetti da basi americane (finché resteranno) prende forma.
La cacciata dei curdi dalle loro case di Afrin potrebbe essere un raro punto di equilibrio tra le tre potenze di Astana, Russia Iran e Turchia, che decidono il ritmo della guerra e negoziano a piccole tappe il finale che verrà. A meno che Erdogan non faccia davvero quello che dice in questi giorni e ordini alle truppe di avanzare verso Manbij, controllata da curdi e americani, e verso Qamishli, controllata da curdi e assadisti. Se così fosse, queste giornate così disastrose di Afrin diverrebbero soltanto il preludio di una guerra aperta tra stati nel nord della Siria.