La rivoluzione delusa
Nei paesi arabi Facebook è passato da speranza a canale ufficiale dei regimi
Roma. Che ci fosse un lato oscuro di Facebook lo si era capito presto in quel grande laboratorio che è il mondo arabo, dove negli ultimi anni è successo che le cose venissero a galla in anticipo. Dopo l’entusiasmo iniziale alimentato dalle tante storie sul potere benigno e libertario dei social media che mettevano i cittadini in comunicazione tra loro e così li aiutavano a sconfiggere apparati di repressione che reggevano da decenni, la questione è presto svaporata ed è uscita dall’attenzione. Ma Facebook non era sparito. E se si dovesse fare un riassunto di cosa è successo sarebbe questo: dopo un momento di smarrimento iniziale, i soggetti che si erano fatti cogliere di sorpresa hanno recuperato tutto lo svantaggio e hanno imparato a padroneggiare e a sfruttare il mezzo meglio degli altri. Prendiamo la Siria. E’ il febbraio 2011 e il governo del presidente Bashar el Assad annuncia una concessione generosa ai siriani: cade il divieto di usare Facebook che durava da cinque anni – e che da alcuni era aggirato grazie a reti private. L’idea è che il governo sente l’aria che tira e usa Facebook come segnale di distensione. Sentite in quei giorni come commenta un attivista per la libertà di espressione sentito dal Guardian a Damasco: “Questa è una grande notizia, dopo quello che è successo il 4 e il 5 (le prime manifestazioni, ndr) le autorità sanno che il popolo siriano non è il nemico. Non siamo stupidi e sappiamo come usare questi siti con intelligenza. Questo è il segno di una nuova mentalità nel paese, non c’è bisogno che la popolazione sia in qualche modo controllata. Le cose stanno cambiando. Spero che questo sia il primo passo in un programma di riforme più vasto”. Sette anni di guerra civile e centinaia di migliaia di morti dopo sappiamo che scambiare l’arrivo di Facebook in Siria per l’inizio di una riconciliazione tra governo e manifestanti fu un equivoco gigantesco. Nel frattempo il social media per sua natura neutrale e molto duttile cambiava nelle mani dei suoi utilizzatori: i foreign fighter in arrivo da tutto il mondo si scambiavano informazioni su come e dove passare il confine e pubblicavano le prime foto dal fronte e i gruppi terroristici cominciavano il reclutamento online. E’ tutto materiale che è stato cancellato quando Facebook si è reso conto con un paio di anni di ritardo di cosa stava succedendo, anche se volendo si trovano ancora migliaia di profili personali di jihadisti. Anche molti battaglioni di ribelli non terroristi aprirono la loro paginetta ufficiale, ma oggi sono perlopiù cadute in disuso e sono consultabili soltanto come relitti elettronici che nessuno si è preso la briga di raschiare dal fondo. Nel 2014 intanto la pagina della campagna di Assad per il (finto) voto presidenziale con duecentomila follower cominciò a pagare Facebook per fare pubblicità al rais – funziona così: se vuoi che i tuoi post raggiungano più lettori, puoi pagare piccole cifre – ma nacquero presto contestazioni e Facebook non accettò più i soldi, che comunque non arrivavano direttamente dalla Siria perché questo avrebbe violato le sanzioni economiche imposte dall’America.
In realtà Facebook non aveva un regolamento chiaro che imponesse di non accettare i pagamenti e prese una decisione arbitraria, ma il fatto è che ormai c’era più politica estera in quelle pagine nate per pubblicare le foto delle vacanze che in un corridoio delle Nazioni Unite. Oggi Facebook riflette il rovesciamento di forze in campo in Siria. Due giorni fa la pagina ufficiale della presidenza della Repubblica araba siriana – che ha un milione e trecentomila follower – ha pubblicato i video del presidente Assad che guidava l’auto a Damasco verso la periferia dove si combatte. La parte iniziale del filmato è stata vista da un milione di utenti. Nel frattempo gli oppositori nelle aree fuori dal controllo del governo mettono sempre meno foto personali per evitare di rivelare indizi compromettenti e sanno che tutti i post che hanno scritto dal 2011 in poi sono un atto di auto incriminazione e probabilmente sono finiti dentro al gigantesco faldone dei ricercati stilato dai servizi segreti siriani e trapelato (su internet, ovviamente): contiene un milione e mezzo di nomi.
La stessa traiettoria – da esperimento che rendeva ebbri di libertà a canale ufficiale sfruttato da esperti di comunicazione e di manipolazione – riguarda in tono minore altri paesi arabi. In Tunisia si ricorderà come nel gennaio 2011 durante la rivolta popolare Facebook dovette nel giro di pochi giorni inventarsi alcune contromisure perché il governo tentava di entrare nel sistema e carpire le identità degli attivisti che organizzavano le proteste di massa su alcune pagine molto lette. Poi il raffreddamento è arrivato anche lì. I funzionari temuti del ministero dell’Interno rimasti al loro posto si sono iscritti, e sono cominciati casi controversi: per esempio nel 2014 un uomo è stato arrestato per avere pubblicato su Facebook una vignetta su Maometto. Di nuovo, la promessa di comunicazione universale è stata rimpiazzata da un rischio concreto di esposizione. In Egitto la pagina Facebook del governo è considerata il canale ufficiale per eccellenza e tutte le pagine istituzionali vanno seguite perché gli annunci sono dati lì. Il New York Times nel 2011 aveva scritto un reportage sulla “Rivoluzione Facebook”, ma oggi non c’è nulla di più ufficiale e le pagine dell’opposizione sono chiuse di frequente, perché nel frattempo tutti hanno imparato i trucchi di base e sanno che se segnali la pagina di qualcuno puoi farlo sparire – almeno per un po’. Due anni fa il principe Mohamed Bin Salman, erede al trono saudita, fece una rarissima sortita pubblica in abiti occidentali per visitare la sede centrale di Facebook a braccetto con Mark Zuckerberg. E fu un’istantanea potente di cosa è successo tra il 2011 e oggi.