Free trade tra Europa e Giappone entro un anno: sarà una rivoluzione
Così Bruxelles cerca di contrastare uno dei momenti più complicati per il libero commercio
Roma. Otto mesi fa Fumio Kishida, l’allora ministro degli Esteri giapponese, si presentò a Bruxelles dal commissario del Commercio dell’Unione europea, Cecilia Malmström, con due daruma, uno bianco e uno blu. Nella tradizione giapponese, il daruma è un talismano con due occhi vuoti: il primo si disegna quando si vuole esprimere un desiderio, il secondo occhio si colora, invece, quando quel desiderio si è avverato. Kishida andò dalla Malmström a colorare il secondo occhio, segno inconfutabile che i desideri di Tokyo – quello di istituire un corridoio di merci speciale tra il Giappone e l’Europa – si stava avverando.
L’Europa sarà tenuta fuori dai dazi più pesanti introdotti dalla Casa Bianca, che dopo la conferenza stampa di ieri di Donald Trump si rivelano soprattutto una mossa in chiave anticinese. Anche secondo il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, l’Europa è fuori pericolo ma “il vero problema è la sovraccapacità cinese e le pratiche sleali utilizzate per scaricarla su altri paesi. Stati Uniti e Unione europea, invece di iniziare una pericolosa escalation, dovrebbero fare fronte comune sul questo problema”. Ma l’Europa ha già in mano uno dei più forti strumenti per contrastare uno dei momenti più complicati per il libero commercio, e si trova a Tokyo. L’accordo di partenariato economico tra le due aree – negoziato per l’Europa da un italiano, Raffaele Mauro Petriccione – dovrebbe entrare in vigore all’inizio del 2019, e anche se ce ne occupiamo poco, sarà una vera rivoluzione dal punto di vista commerciale. Dai paesi europei si esportano già oggi in Giappone 58 miliardi di euro in beni e 28 miliardi di euro in servizi, e secondo quanto ufficializzato dall’accordo di massima del dicembre del 2017, per l’export europeo si tratta dell’eliminazione del 99 per cento delle tariffe totali. Secondo i dati dell’ufficio del Commercio di Bruxelles, ogni miliardo di euro di esportazioni rappresenta 14 mila posti di lavoro in più in Europa. Il più avvantaggiato, naturalmente, è il settore alimentare: a Tokyo il formaggio europeo costa il 40 per cento in più, esportare il cioccolato il 30 per cento in più. Perfino la frutta, in Giappone, è un alimento di lusso, e l’abbattimento delle barriere porterà all’aumento delle esportazioni dall’Europa. Per non parlare del vino e della pasta. Dal punto di vista giapponese, il prodotto da esportazione più importante è l’automobile: le macchine nipponiche, dalla Toyota alla Suzuki, costeranno di meno, e costerà di meno acquistarne i pezzi. Ma il Giappone in questo modo potrebbe essere comunque incentivato a produrre in Europa, nei suoi 14 impianti di produzione, rendendo più facile l’accesso al mercato europeo.
Alla fine di febbraio l’ambasciatore giapponese per gli affari commerciali, Yoichi Suzuki, ha detto che la “priorità di Tokyo e Bruxelles è far entrare in vigore l’accordo entro la fine di marzo 2019”, cioè prima che la Gran Bretagna esca ufficialmente dall’Unione europea. In questo modo la nuova regolamentazione sulle tariffe si applicherebbe automaticamente anche su Londra (un mercato importante per il Giappone, che non vuole perdere per la Brexit).
Non è un caso se ieri Robert Lighthizer, rappresentante del Commercio di Washington, mentre spiegava i dazi contro la Cina ha detto di sperare di iniziare “al momento opportuno” un colloquio con il Giappone per un accordo bilaterale di libero scambio. Mentre il Trans-Pacific Partnership senza l’America va a gonfie vele, mentre Tokyo sta per firmare un accordo che creerà lavoro per 600 milioni di persone, rappresentando quasi un terzo dell’intera economia mondiale, Washington si isola sempre di più.