Perché la rielezione di Sisi può aprire una battaglia per il futuro dell'Egitto
Il risultato era scontato, dopo che il rais ha tolto di mezzo tutti i rivali. Ma terrorismo, austerity e il tentativo di riforma della Costituzione non saranno ostacoli altrettanto semplici per il regime
Il giorno dopo il voto, sulla prima pagina dell’Ahram (foto sotto), il quotidiano filo governativo egiziano, il titolo in rosso dice: “Il popolo ha scelto il presidente”. È chiaro il richiamo - stessa struttura e stesso numero di parole - a quella prima pagina storica che, la mattina dopo il crollo dell’ex rais Hosni Mubarak nel 2011, annunciava che “il popolo” aveva fatto “cadere il regime”.
L’atmosfera però rispetto a quel 2011 al Cairo è ben diversa, mentre va avanti lo spoglio delle schede al termine di tre giorni di votazioni. I risultati ufficiali si avranno soltanto il 2 aprile. Si va con pochi dubbi verso un secondo mandato del presidente Abdel Fattah al Sisi, dopo che arresti, accuse penali e intimidazioni hanno assottigliato fino a rendere irrilevante il gruppo dei possibili (e credibili) rivali alle urne.
L’unica variabile ancora aperta resta quella dell’affluenza. Il rais Sisi è stato eletto nel 2014 – un anno dopo che manifestazioni di piazza e l’intervento del suo esercito hanno portato alla caduta del presidente dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi – con il 97 per cento delle preferenze, in un voto dall’affluenza bassa: il 47 per cento.
In queste ore, fonti ufficiali raccontano che oltre 21,5 milioni di voti, su un elettorato di 60 milioni, sarebbero già attribuibili al rais mentre fonti ufficiose prevedono una partecipazione sotto la soglia del 40 per cento. Benché questo dato indebolirebbe l’obiettivo del regime, quello di consacrare un secondo mandato di Sisi con un ampio sostegno popolare, l’artefatta mancanza di sfidanti ma anche il sostegno di una popolazione che vede nel presidente una garanzia di stabilità contro l’incognita del nuovo rendono inutile l’attesa di un risultato già conosciuto.
Il volto di Sisi è ovunque da settimane: in tv e sui cartelloni elettorali in tutto il paese. Il suo unico sfidante, Moussa Mostafa Moussa, non ha perso tempo a imbastire una campagna elettorale già spacciata sul nascere. Il risultato del voto era più o meno assicurato, come il sostegno di una popolazione disincantata e stanca e il silenzio di una opposizione spaventata dalle repressioni. “Il mistero – si chiede allora il New York Times - è perché Sisi agisca come un uomo che ha qualcosa da perdere”.
Uno dei pochi siti di news indipendente rimasto attivo nel Paese, Mada Masr, fa notare come con l’avvicinarsi delle elezioni il “tono severo” e “accusatorio” dei discorsi ufficiali del presidente sia in aspro contrasto con le maniere soft e più concilianti del primo mandato.
Nei mesi scorsi, il regime ha licenziato due dei suoi vertici – uno militare e uno dell’intelligence -, imprigionato o neutralizzato candidati e possibili sfidanti anche se le loro possibilità di togliere voti al rais erano in alcuni casi molto limitate. La repressione nei confronti di avversari politici, anche poco competitivi, è documentata da mesi. La deportazione della corrispondente del Times di Londra, Bel Trew, qualche giorno fa, è stato l’ultimo di una serie di episodi aggressivi contro la stampa internazionale e nazionale.
Il regime, spiega il Washington Post, ha ristretto quell’angusto spazio di manovra che l’ex presidente Hosni Mubarak aveva concesso alle opposizioni, e che quelle avevano sapientemente usato fino ad arrivare alla rivolta del 2011. Non sarebbe dunque la silenziata classe politica a preoccupare Sisi, bensì un tipo di opposizione più interna al regime e all’establishment. Si sa da sempre molto poco sulle dinamiche interne alla classe militare – che controlla la politica ma anche una vastissima parte dell’economia nazionale –, ma a molti osservatori sembra sempre più chiaro che ci siano fratture tra i ranghi. E che queste preoccupino il rais.
L’unica minaccia alla tenuta del regime sarebbe dunque interna, come proverebbero episodi degli ultimi mesi. A dicembre, Sisi ha licenziato il capo della Difesa, il generale Mahmoud Hegazy, a gennaio il vertice dell’intelligence Khaled Fawzy. Tra i candidati neutralizzati con l’avvicinarsi del voto, tre avevano un passato di peso nell’esercito (e forse ancora un seguito?): l’ex primo ministro Ahmed Shafiq, il generale Sami Anan, il colonnello Ahmed Konsowa.
Le preoccupazioni originate dalla pancia del regime arrivano per il rais mentre affronta le sfide dell’economia e della sicurezza. Il pacchetto di riforme imposto dal Fondo monetario internazionale in cambio di ingenti aiuti economici sta rafforzando il paese ma anche il malcontento di una popolazione sfiancata dall’austerity e dall’inflazione. Dall’altra parte, il terrorismo, che il presidente aveva promesso di sconfiggere, continua a colpire l’Egitto. La campagna militare in corso in Sinai da poco prima del voto ha come obiettivo quei gruppi jihadisti che da anni hanno fatto della penisola la loro roccaforte e che minacciano di espandere la loro azione oltre i confini dell’area.
Con la chiusura delle urne in Egitto e la consacrazione di Sisi si apre una battaglia per il futuro del paese, scrive Michael Hanna, della Century Foundation, che prevede uno scenario cinese “quando il regime cercherà di cambiare la Costituzione per estendere il mandato presidenziale e abolirne il limite”. Si tratta di una proposta già avanzata da alcuni deputati alleati del rais. Se questo avvenisse, però, si aprirebbe anche “un'importante opportunità per gli attori politici egiziani e la società civile: quella di focalizzare la propria attenzione, forgiare alleanze e iniziare un processo a lungo termine per costruire le basi del ritorno alla politica civile”.