Gli inganni nella vittoria di Trump con la Corea del sud
A prima vista sembra un negoziato ideale, è il primo deal che va verso il riequilibrio dell'assetto del libero scambio. Ma forse, è pensato più per i comunicati stampa che per il commercio
New York. L’accordo commerciale fra gli Stati Uniti e la Corea del sud presentato ieri è il primo patto siglato da Donald Trump secondo i criteri sbandierati dalla campagna elettorale, quelli grazie ai quali avrebbe riequilibrato un assetto del libero scambio a suo dire svantaggioso per gli Stati Uniti. Trump voleva disertare o smantellare i trattati sopranazionali per negoziare in formato bilaterale le condizioni con ogni singolo partner commerciale, e il patto con Seul va in questa direzione.
Il rappresentante del commercio, Robert Lighthizer, ha spiegato che si tratta in realtà di “tre accordi che sono indipendenti ma definiscono la nostra relazione”, toccando il mercato dell’acciaio, la valuta e rivedendo l’accordo Korus firmato sei anni fa. Nella nuova cornice commerciale la Corea accetta di ridurre le esportazioni di acciaio verso gli Stati Uniti del trenta per cento (“molti pensano che la Corea è parte del problema sull’acciaio, e io sono d’accordo con loro”, ha detto Lighthizer) e sconta dazi del 10 per cento sul valore dell’acciaio; sulla valuta le parti hanno trovato un accordo per evitare la “svalutazione competitiva” del dollaro e hanno modificato i termini del Korus per quanto riguarda il settore delle automobili: Trump ha esteso i dazi in vigore su van e pick up coreani (25 per cento) fino al 2041 e ha raddoppiato il numero di mezzi analoghi di fabbricazione americana che ogni costruttore può esportare ogni anno in Corea, fissando il limite a 50 mila unità. E’ un numero pensato più per i comunicati stampa che per il commercio: l’anno scorso nessun costruttore americano s’è avvicinato a quella quota, e le aziende non hanno mostrato interesse ad adattarsi alle esigenze del mercato coreano, che richiede auto più piccole e con consumi inferiori.
A prima vista si tratta di un caso di scuola del negoziato ideale di Trump, una dimostrazione di forza dell’artista del deal che fronteggiando i partner uno per uno ottiene il massimo dei risultati. Il presidente ha usato la minaccia del protezionismo più spinto su acciaio e alluminio per trattare da una posizione di forza e ottenere le concessioni che desiderava sulle automobili, con una riforma che aiuterà soprattutto General Motors e Ford. L’ideale del presidente – trattare con ogni interlocutore su un tavolo esclusivamente economico – è però messo in crisi dalle motivazioni politiche che hanno spinto Washington a sbloccare una trattativa rimasta per mesi in naftalina. La decisione americana, mediata e annunciata formalmente dalla Corea, di sedersi al tavolo con Kim Jong-un ha costretto Trump a risolvere in tutta fretta una disputa che avrebbe messo a repentaglio l’approccio con Pyongyang, messo già peraltro alla prova dalla visita a sorpresa del dittatore in Cina.
L’accordo commerciale coreano è stato applaudito dall’intero arco nazionalista e protezionista dentro e fuori dalla Casa Bianca – da Steve Bannon ai sindacati del settore metallurgico – per i benefici domestici che promette di portare, ma allo stesso tempo mostra i limiti della logica degli accordi commerciali “puri” esibita da Trump, che da spregiudicato immobiliarista concepisce gli affari come separati dalla dimensione diplomatica e politica. L’accordo con Seul è innanzitutto una manovra geopolitica. Ma la strategia aggressiva sui trattati commerciali dell’Amministrazione Trump non è facilmente replicabile. Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha respinto seccamente i tentativi negoziali di Washington: “Parliamo di qualunque cosa, in linea di principio, con un paese amico che rispetta le regole del Wto. Non parliamo di niente, in linea di principio, quando ha una pistola puntata alla tempia”.