Roseanne, forgotten woman
Il reboot della serie tv che dà voce all’uomo di Trump, con ascolti che sono la gioia del presidente. L’astuzia della Abc
New York. Non c’è niente che entusiasmi quell’animale intimamente televisivo che è Donald Trump quanto gli indici di ascolto, lo share, l’audience, misure inconfutabili del successo e dell’influenza. Da giorni il presidente è in sollucchero, a dispetto dei molteplici assedi di natura pornopolitica e dei burrascosi avvicendamenti interni, per il successo di “Roseanne”, remake della serie televisiva degli anni Ottanta e Novanta che racconta le vicende difficili ed esilaranti di una famiglia della working class di una cittadina dell’Illinois guidata da una sostenitrice di Trump che pensa e dice scorrettezze politiche urticanti per i liberal. Una specie di riscossa televisiva degli americani di mezzo che hanno votato l’eroe populista anche perché erano stati tagliati fuori dal racconto dell’epopea nazionale, dominato dai pregiudizi costieri e dalla superiorità morale dell’élite.
La prima puntata della nuova serie, trasmessa dalla Abc, ha fatto il 10 per cento di ascolti in più rispetto all’ultimo finale di stagione, datato 1997, e la performance non è sfuggita a Trump. L’altro giorno in Ohio, al centro della terra di Trump, lo ha gridato in un comizio ai membri dei sindacati: “Guardate ‘Roseanne’! Guardate gli ascolti, sono incredibili! Oltre diciotto milioni di persone! E parlava di noi!”. Parla di noi è la sintesi della sensibilità di un popolo che ha votato Trump in larga parte perché l’establishment e i partiti tradizionali avevano ignorato, taciuto e obliato la vasta schiera degli americani senza voce. Che cosa avessero esattamente da dire è un’altra questione, il fatto che conta è che erano passati sotto silenzio, e “Roseanne” è la loro voce, la loro riscossa, un po’ come quella di Tonya Harding, un’altra eroina hillbilly riabilitata nell’epopea innocentista di “I, Tonya”.
Trump ha fatto una telefonata di congratulazioni anche alla protagonista e autrice dello show, Roseanne Barr, che nella perfetta sovrapposizione di ruolo e persona è anche una sostenitrice di Trump nella vita reale. Sostenitrice eterodossa, come spesso capita, essendosi infilata in avventure di vari segni politici, da una candidatura presidenziale con il Peace and Freedom Party all’attivismo con il Partito dei verdi fino a gesti anche più controversi: una volta, negli anni Novanta, ha cantato uno stonatissimo inno americano prima di una partita di baseball dei Padres, provocatoria performance conclusa con sputi per terra e con un gesto che era in qualche modo un prodromo del più tardo “grab by the pussy”. Non proprio un momento da make America great again.
Più di recente ha twittato l’indirizzo di casa di George Zimmerman, la guardia giurata che ha ucciso il giovane afroamericano Trayvon Martin, e in seno a quell’ondata di rabbia è nato il Black Lives Matter. La signora cresciuta in una famiglia ebrea a Salt Lake City e poi a lungo attiva nella chiesa dei mormoni non teme piroette e giravolte. In origine Roseanne aveva pensato al revival della vecchia serie come “uno show realistico su una madre forte che non è vittima del consumismo patriarcale”, ma nel tempo l’idea si è modificata, adeguandosi alla cultura riportata alla luce da Trump. Le vicende di Roseanne sono ambientate in una città fittizia basata però sulla reale città di Elgin, e la traiettoria sociale descritta nell’arco trentennale della serie effettivamente regge il confronto con la realtà.
Negli anni Novanta la protagonista lavorava in una fabbrica di materiali plastici, settore che occupava il 23 per cento della popolazione locale; oggi, nel pieno della desertificazione post industriale, soltanto il 14 per cento degli abitanti di Elgin lavora in fabbrica. L’aspetto incongruo dell’entusiasmo per questo vedersi allo specchio dell’America trumpiana è che il monopolio della rappresentazione non cessa di essere nelle mani dell’odiata élite. Dopo le elezioni i top manager dell’Abc si sono riuniti per capire come navigare nel nuovo clima. Avevano trasmesso programmi tagliati sugli afroamericani, si erano occupati di latinos, dei gay, avevano toccato i tasti della giustizia sociale e del risentimento contro Wall Street. Ora, si sono detti, dobbiamo gratificare gli zotici bianchi sdentati che hanno riscoperto una coscienza politica. Quella di Roseanne è una rivoluzione culturale trainata dal senso del marketing: puro Trump.