Elaborazione grafica del Foglio

La parabola dell'internazionale illiberale

Eugenio Dacrema

Le “retropie" di Putin, Erdogan e Orban sono in ascesa ma l’economia e l'onnipotenza saranno la loro nemesi

Roma. Sono i vincitori di oggi e, forse, i dominatori di domani. Sono i simboli incarnati della nuova grande onda ideologica del momento, quella che alcuni chiamano “nazionalismo”, o “sovranismo”, ma che forse il compianto Zygmunt Bauman ha definito meglio di tutti: Retropia. Da Vladimir Putin a Erdogan, passando per l’ungherese Viktor Orban, o dalla Polonia dei Kachinsky e forse perfino dalla Cina di Xi Jinping dopo la recente riforma della leadership. Guardare al futuro con le “retropie” del passato: il grande impero sovietico-zarista, la gloria ottomana, o le mitologie guerriere d’Ungheria. A guardarli di sfuggita difficile vedervi vere analogie. Il cristiano-laico domatore di orsi Vladimir ispira le fantasie di persone che spesso tendono a vedere con astio il neo-sultano musulmano Erdogan. Ma ripuliti da simboli e retoriche le analogie ci sono eccome.

 

Loro se ne sono accorti prima di tutti, e infatti si avvicinano sempre di più. Le tendenze filo-putiniane dell’Ungheria di Orban sono da tempo spina del fianco di Bruxelles; e per quanto ci si continui a illudere che quello attuale tra Putin ed Erdogan sia solo un flirt, progetti congiunti di gasdotti, centrali nucleari e, forse, perfino sistemi missilistici suggeriscono il contrario. A renderli simili c’è ovviamente l’impianto dei loro sistemi politici: quella “democrazia illiberale” che rompe i confini della distinzione dei poteri, che censura stampa e opposizione, che trasforma le elezioni in termometri politici in cui l’affluenza conta più dei risultati. 

   

Ma non sono solo gli elementi procedurali ad accomunarli. Ci sono anche le loro storie, le comuni traiettorie che hanno portato molti di loro a trasformarsi da campioni della democrazia liberale ai suoi attuali più temibili nemici, quelli che potrebbero davvero liquidarne l’esperimento storico. Traiettorie che è utile esaminare, anche per comprendere quali potrebbero esserne i futuri sviluppi. Putin, come Orban e Erdogan, hanno iniziato la propria carriera proprio come esecutori di quell’integrazione nel sistema internazionale dominato dall’occidente che chi governava prima di loro stentava ad applicare. Ne hanno guadagnato per anni il favore del sistema dominante. Il nuovo G7, diventato G8 con la Russia, e addirittura il corteggiamento fra Mosca e la Nato dei primi anni duemila; le spinte e le riforme del primo governo Orban per far entrare l’Ungheria nell’Unione europea; o quelle di Erdogan in Turchia, che ha addirittura usato il sostegno europeo per liberarsi dei nemici più temibili, quei militari che nella storia turca avevano metodicamente eradicato ogni esperimento di governo islamista. Una strategia che ha pagato. Riforme pro-business e accesso facilitato ai ricchi mercati occidentali hanno creato crescita a ampliamento della base economica, consolidando la popolarità dei leader e stabilizzandone, almeno momentaneamente, il potere.

   

Poi è arrivata la seconda fase. Tutti loro, in momenti diversi, hanno invertito molti dei passi compiuti. Difficile capire quanta strategia ci fosse, o quanto ciò sia il risultato di piccole decisioni tattiche mirate a non perdere il potere, ma le analogie sono sorprendenti. La Russia è stata la prima. Già dopo la fine del secondo mandato di Putin la spinta riformatrice sembrava arenatasi. Le risorse energetiche sembravano sufficienti a mantenere un sistema economico sbilanciato ma stabile. Ma si è dovuta attendere la fine dell’intermezzo Dmitrij Medvedev per assistere alla transizione della forma e della simbologia del potere russo verso le tonalità odierne, verso quello strano miscuglio di grandeur sovietico-zarista. Un percorso a fasi che ritroviamo anche nella traiettoria di Orban ma che è diventato una vera guida alla conquista del potere assoluto per Erdogan, ultimo arrivato in questa metamorfosi. Gli anni duemila degli investimenti esteri, delle nuove “tigri anatoliche” dell’industria, del processo di pace coi curdi e della politica dei “zero problemi coi vicini” per favorire l’economia sono un lontano ricordo. Nella realtà di oggi in cui la lira turca perde in pochi anni il 50 percento del proprio valore, la disoccupazione è stabile sopra il 10 percento e l’economia cresce solo con sussidi statali, sono i problemi coi vicini a tenere a galla il rais. Dal suo nuovo palazzo neo-sultanale di Ankara Erdogan ordina offensive in Siria, ne minaccia altre in Iraq, manda navi militari a intimidire vascelli italiani, e ordina l’arresto di soldati greci al confine. Erdogan ha imparato dalle lezioni di Putin in Crimea, Donbass e Siria. Se non c’è l’economia, solo la Retropia ti può salvare: la sua in salsa neo-ottomana.

  

Ma se queste sono le traiettorie di ieri e di oggi, qual è il futuro dell’emergente internazionale illiberale? A oggi, all’orizzonte si intravedono almeno due problemi. Il primo pratico: questi leader hanno costruito la propria ascesa (anche) sulla cancellazione sistematica dalla scena politica dei propri potenziali sostituti. Cosa accadrà quando madre natura arriverà laddove non sono arrivati opposizione e checks-and-balances democratici? Nonostante la non più giovane età non si intravedono delfini all’orizzonte; solo personaggi di seconda linea pronti ad azzannarsi fra loro nell’arena di un improvviso vuoto di potere.

   

Ma il secondo problema è ancora più profondo, e ha a che fare con la natura stessa di questi regimi. Al contrario delle identità liquide dei sistemi liberali, che cambiano, si sovrappongono, e si dissolvono con i cambi di vento, questi sono regimi che hanno strutturato la propria ragion d’essere su identità narrate e riconfigurate dall’alto, radicate in passati ancestrali e mitizzati. E come qualsiasi identità anch’esse esistono e si alimentano nel confronto, nella divisione fra un noi e un loro. Finora il campo del “loro” è stato costituito dall’occidente, dall’odiosa “dittatura liberale”, per dirla alla Orban, dalla decadente Europa e dall’arrogante America. Ma questo occidente dal passato onnipotente ha un presente fragile e incerto, e potrebbe non avere spalle e futuro abbastanza larghi per reggere il ruolo a lungo. Prima o poi le ostilità esistenziali di questi regimi dovranno trovare altri nemici primari. Potrebbero ricordarsi, come in parte sta già accadendo, che l’ancestrale identità ungherese è anti-russa, che quella russa è certamente cristiana e, come quella ungherese, decisamente anti-ottomana.

  

E' in fondo questo il vero problema dell’astro nascente illiberale. Ha sempre bisogno di un grande nemico per esistere. Fosse pure se stesso.