Najib Razak (foto LaPresse)

Le fake news fanno comodo se vuoi essere un leader temuto e autoritario

Giulia Pompili

Guerra tra giornalisti, media e governi nel sud est asiatico

Roma. Se l’occidente si interroga ormai da tempo sull’invasività di internet, sull’uso dei social network e sul loro ruolo nella diffusione delle fake news, l’oriente non è da meno. Ma è nel sud-est asiatico, dove la parola democrazia ha spesso significati più sfumati, che l’etichetta di fake news rischia di essere assegnata arbitrariamente, e a favore di chi? Qualche giorno fa il governo malesiano di Najib Razak ha proposto al Parlamento di votare una delle più dure leggi contro le fake news. Si parla di dieci anni di carcere e una multa fino a quasi centotrentamila dollari per chi diffonde notizie giudicate false “totalmente o parzialmente”. L’organo legislativo di Kuala Lumpur dovrebbe approvarla entro la fine della settimana, ma gli osservatori internazionali parlano già di una definizione “troppo vaga e troppo ampia” del concetto di notizia falsa, tanto che chiunque potrebbe essere attaccato semplicemente per aver criticato il governo. Anche secondo il sindacato dei giornalisti malesiani, una legge simile potrebbe limitare la libertà dei media di pubblicare notizie e inchieste critiche con il governo di Najib Razak, soprattutto in vista delle controverse elezioni generali di questa estate.

 

“La costruttiva, salutare tensione tra i sempre più autoritari governi del sud-est asiatico e i media sono degenerate in disprezzo reciproco e repressione. Di certo alcuni giornalisti e blogger sono stati dichiarati nemici dello stato”, hanno scritto Dominic Faulder e Cliff Venzon nella storia di copertina di qualche settimana fa del Nikkei Asian Review, dedicata alla libertà d’espressione nel sud est asiatico. “Questi trend riflettono le crescenti correnti intorno alla questione dell’identità politica e del populismo. Riflettono un senso di sicurezza crescente, e perfino un senso d’impunità dei partiti al governo, che hanno praticamente sotto controllo il racconto di se stessi”, ha spiegato al Nikkei il giornalista e commentatore thailandese Kavi Chongkittavorn.

 

A Singapore il governo ha richiesto un panel di esperti, il Select Committee on Deliberate Online Falsehoods, che per tutto il mese di marzo ascolterà esperti e giornalisti sul tema. Per esempio Channel News Asia, che ha domandato al governo di incentivare il “giornalismo di qualità” per evitare il diffondersi di fake news, ma soprattutto di dare una definizione ben precisa di una “notizia falsa”, per non cadere nella trappola della censura. L’Indonesia, che andrà alle elezioni presidenziali nel 2019, ha già capito che la polarizzazione dell’opinione pubblica sui temi etnici e religiosi avverrà soprattutto online, così com’era successo con l’ex governatore di Giacarta Ahok, accusato di blasfemia. Poi c’è il caso del Myanmar, che si stava avviando verso una democratizzazione compiuta, ma dove recentemente “un’intera regione”, quella dello stato Rakhine, al confine col Bangladesh, è stata proibita ai giornalisti. Qui, negli ultimi mesi, si sono intensificati gli scontri tra le Forze di sicurezza e i musulmani dell’etnia rohingya, e dal dicembre scorso due giornalisti di Reuters sono in stato di arresto per aver raccolto materiale per un’inchiesta sugli avvenimenti in quelle zone. Secondo la commissione d’inchiesta internazionale dell’Onu sul Myanmar, Facebook ha svolto un “ruolo determinante nell’incitamento all’odio”. Giorni fa il sito indiano Cobrapost, specializzato in inchieste con “agenti provocatori”, ha pubblicato un’inchiesta nella quale, fingendosi capo di una organizzazione religiosa, offre a più di venti media dai centomila dollari in su in cambio di una strategia di comunicazione positiva nei suoi confronti: “Con nostra grande sorpresa, la maggior parte di loro non solo ha accettato di fare ciò che gli abbiamo chiesto, ma ha anche dato dei suggerimenti per intraprendere una campagna mediatica ben orchestrata”. Nelle Filippine, dopo la chiusura da parte di Rodrigo Duterte di Rappler, un sito di news spesso critico con il governo di Manila, su Facebook è stata pubblicata un’enorme quantità di articoli favorevoli alla decisione, spesso con argomentazioni evidentemente false – e aprendo il dibattito sull’uso strategico di certe piattaforme da parte del governo. Eppure è delle Filippine il record di utenti attivi sui social network, vuol dire un mercato irrinunciabile per il colosso di Menlo Park. Per tenere d’occhio la svolta autoritaria nei paesi del sud-est asiatico, il dibattito sulle fake news è fondamentale.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.