Una sinistra senza ali. Intervista con Alastair Campbell
Lunghe chiacchiere con l’ex spin doctor di Tony Blair sulla casa diroccata dei moderati, la nostalgia tiranna, la depressione e un disegno con le mani che sa di futuro, di rapidità e di stelle
Le vacanze sono terribili, “cerco di non smettere mai di lavorare, devo sempre avere qualcosa da fare, il tempo libero e il relax sono deleteri, li evito”. Alastair Campbell parla della sua depressione che viene e va e torna, e anche se ha imparato a riconoscerne i sintomi, a controllarla, anche se prende medicine ogni giorno, sa che la depressione non passa. Campbell è a Firenze per un seminario sulle malattie mentali, racconta della sua automobile che faceva un rumore strano e chissà quando il meccanico la riparerà, dei ristoranti pieni di americani, di tutti gli esperti di schizofrenia che incontrerà alla sera, e in maglione e scarpe da ginnastica è quanto di più lontano dall’immagine che abbiamo di lui, il re degli spin doctor, architetto del New Labour di Tony Blair, arcigno, diretto, spietato. Dice che questa è l’etichetta che gli è stata appiccicata addosso, e sorride con l’aria di chi ha imparato a gestire le ombre, lo spin che non si deve vedere altrimenti che spin è, e il suo buio, che c’è sempre stato, e torna.
L’ex spin doctor di Tony Blair è venuto a Firenze a parlare di malattie mentali, la battaglia a cui tiene di più (oltre alla Brexit, s’intende)
“Dobbiamo parlare” è il motto con cui Campbell ha iniziato a impegnarsi nella campagna di sensibilizzazione per le malattie mentali: è un’espressione che di solito anticipa chiacchiere spiacevoli e svogliate, la usano gli innamorati non corrisposti, le mogli trascurate. Invece per Campbell è liberazione, è rimettersi in gioco “in un campo in cui sento di poter cambiare qualcosa, di poter ottenere qualcosa”. Non come nella politica, dove “rappresento il passato, non posso essere più io, non possiamo essere noi, quelli della mia generazione, gli interpreti di questo momento”. Non è a caccia di un rifugio però, di un modo per tenersi occupato e combattere le ombre, ripete tante volte “engagement”, sintesi della dedizione che ancora gli ribolle dentro, mentre gesticola e spiega e rassicura – “sono preoccupato ma sono fiducioso” – e racconta le sue battaglie contro la Brexit, contro i populismi, in difesa di quel progressismo rivoluzionario di cui è stato protagonista. Dobbiamo parlare, le malattie mentali sono un problema sempre più grande, “i governi devono impegnarsi non soltanto nel riconoscerne la gravità, ma anche creando quel sostegno indispensabile per curare, per salvare. Sai che sono i maschi quarantenni a suicidarsi di più nel Regno Unito?”, dice per sottolineare che no, non si è trovato un rifugio, sta parlando a noi, di noi.
“Il Pd è andato su su e poi giù giù, in questi cambiamenti rapidi c’è il fallimento ma anche la fiducia che rapidamente si può risalire”
I ricordi di Campbell si intrecciano con il presente, il primo crollo nervoso negli anni Ottanta, la chiamata di Tony Blair negli anni Novanta, la paura che sotto pressione la malattia potesse riapparire, peggiorare: “Se tu non sei preoccupato non lo sono nemmeno io”, disse Blair a Campbell dopo avergli offerto il lavoro di capo della comunicazione del primo governo del New Labour. “E se io fossi preoccupato?”, chiese Campbell. “Io continuerei a non esserlo”, rispose Blair, e incominciò l’avventura dell’esecutivo laburista più di successo della storia del Dopoguerra. “Ma ecco, parliamo sempre del passato – dice Campbell – La politica dovrebbe dare prospettive per il futuro e invece si aggrappa al passato, anche noi siamo abbarbicati al passato. I conservatori nel Regno Unito ancora si definiscono sulla base del thatcherismo, e la Thatcher ha lasciato Downing Street nel 1990. Il Labour ha fatto un salto ancora più lungo, all’indietro, s’è immerso negli anni Sessanta-Settanta. Come si può avere una visione se si è impantanati nella nostalgia?”. Il passato è una trappola, ma pure nel presente ci si sente in gabbia. Il Labour di oggi per Campbell è una sofferenza, “l’ho votato anche alle ultime elezioni, ma ora sta raggiungendo il limite persino per me, vorrei cacciare i Tory dal governo, ma pure la scelta per Jeremy Corbyn non è una granché”. Di male minore in male minore ci siamo ritrovati con un centro vuoto, progressisti riformatori senza casa, e appena ne troviamo una, come è accaduto in Italia con il Partito democratico di Matteo Renzi, la riduciamo in macerie. La mappa elettorale dopo il voto del 4 marzo è lo specchio di questa distruzione: pochi puntini rossi sparsi qui e là, solitari, in un mare di colori che sanno di estremismi di varia natura, non sai se è meglio la certezza del nazionalismo verde che sventola la Bibbia o l’improvvisazione gialla di un movimento che si mette la cravatta e pensa così di essere partito di governo. “In Italia è dura”, ammette Campbell scuotendo la testa, ma poi inizia a disegnare grafici con le mani, “il Partito democratico è andato su su e poi e sceso giù giù, in pochissimo tempo, e in questi cambiamenti rapidi c’è il fallimento ma anche la fiducia che altrettanto rapidamente si può risalire”. Stelle che si staccano dal cielo ma che poi, in qualche modo, si riallineano, “bisogna guardare avanti e trovare le idee, immaginare una visione: può accadere di tutto, in tempi brevissimi”.
“La politica dovrebbe dare prospettive per il futuro e invece si aggrappa al passato. Il Labour ha fatto un salto all’indietro lungo”
Nel pantano però manca l’aria, mancano i punti di riferimento. “Poco fa stavo leggendo un editoriale di David Brooks sul New York Times in cui spiegava la leadership di Vladimir Putin. Sullo stesso numero, c’erano un lungo ritratto politico di Erdogan, il presidente turco, e Brooks su Putin: segno dei tempi, no? Questi leader autoritari sono facili da identificare, da comprendere: hanno idee precise, esplicitamente illiberali, orgogliosamente illiberali. Puoi non condividerle, ma non puoi dire che non sono chiare. E Brooks alla fine dice: ‘Oggi il momentum è chiaramente nella direzione dell’autoritarismo. In parte perché questa parte ha personaggi riconoscibili e temerari alla guida. Ma in parte anche perché se ti fermi un attimo e chiedi quale sia il leader globale del campo liberal-democratico non ti viene in mente nessuno’”. Campbell condivide anche se un nome gli viene subito in mente: Emmanuel Macron. E’ affascinato dal presidente francese, smette di scuotere la testa, non servirebbe neppure il suo occhio da talent scout per individuare la forza di Macron, che è lì, in mostra: guardami, il custode del mondo liberale, il testimonial giovane e coraggioso dei moderati sono io. “Ha fatto un’operazione straordinaria – dice Campbell – e ci ha dimostrato che non è vero che Europa e globalizzazione sono morte, anzi. Sono vive e pimpanti, devi avere la forza di abbracciarle e proiettarle in avanti. Questa Francia macroniana farà male, a noi inglesi invischiati nella Brexit, inizio a pensare che Macron non voglia più tenere la porta aperta per un eventuale ripensamento sull’uscita del Regno Unito dall’Europa: ha capito che potrebbe convenirgli davvero”. Agli inglesi no, la Brexit non conviene, “lo sanno tutti, lo dicono ormai tutti, ma con questa volontà popolare da rispettare non riusciamo a invertire il corso degli eventi”. Ma come, il capo degli anti Brexit, editor at large del magazine New European che ha come missione editoriale la denuncia degli orrori della Brexit, sta perdendo la speranza? “No no – dice Campbell – la speranza non si smarrisce. Ma a giorni alterni penso che forse stiamo perdendo tempo e che soltanto l’esperienza della Brexit ci farà capire che è bene ripensarci”. E poi, aggiunge, anche in questa battaglia così chiara, così semplice, pro o contro l’Europa, manca l’ingrediente principale, un leader: “Non possiamo essere io, Tony Blair, John Major, Peter Mandelson i testimonial di questa campagna: l’altro giorno vedevo in tv una carrellata delle nostre facce e pensavo che noi siamo stati interpreti di altri sogni, di altre ambizioni, c’è qualcosa che non va se adesso siamo ancora noi a intestarci questa causa”. Facciamo il totoleader, allora: elenchiamo alcuni nomi (non li cito, perché per lo più sono mezzi sconosciuti, e in ogni caso i commenti di Campbell non sono ripetibili), ci soffermiamo sul chiacchierato ritorno di David Miliband che già ha scatenato polemiche efferate (“il passato, lo vedi?, parliamo sempre del passato”), e sul volto più noto, quello del parlamentare Chuka Umunna, “il più visibile, si espone molto, è carismatico, è bravo”. Ma? “Ma anche la campagna anti Brexit è poco compatta, c’è chi vuole ‘fermare’ l’uscita dall’Europa, e chi vuole invece, per via parlamentare, interpellare gli inglesi di nuovo, una volta che l’accordo con Bruxelles sarà siglato”. E’ l’ormai celebre “secondo referendum” che Campbell si rifiuta di chiamare così perché, “tanto per cominciare, sarebbe il terzo referendum sull’Europa, visto che votammo anche negli anni Settanta, e poi se dici: rivotiamo, sembra che l’esito della prima consultazione non ti sia andato bene e vuoi riprovarci, come alla lotteria, finché non vinci. Ovvio che l’esito a me non è piaciuto, ma non è per questo che vorrei sentire il parere degli inglesi. Sono davvero convinto che una volta che l’accordo con gli europei sulla Brexit sarà definito, molti cambieranno idea”. A scatola chiusa non si compra niente di tanto costoso, eppure una campagna così nitida sta diventando un ghirigoro, ci sono tante sigle di movimenti anti Brexit che si parlano tra di loro e collaborano ma restano distinte e in questa sfumatura, insieme ma divisi, sta tutto il tormento di Campbell, a giorni alterni, “e anche questa battaglia, in cui credo moltissimo, mi ributta indietro nel passato: le argomentazioni, gli scontri, la virulenza sono gli stessi del 2016”. Non è cambiato nulla? “Io sì, io sono cambiato: non ero mai stato tanto europeista prima d’ora, è proprio vero che ti accorgi di quanto è importante una cosa quando rischi di perderla. Ma il Regno Unito è spaccato a metà, se fai la Brexit mezzo paese si dispererà, se non la fai si dispererà l’altro mezzo. Non so quando e se troveremo la forza di ricomporci”.
Il corbynismo è ogni giorno più difficile da digerire e la lotta contro la Brexit è piena di distinzioni che rischiano di compromettere tutto
Questo Labour così radicale non aiuta. Campbell cita le ultime crisi, l’antisemitismo di Corbyn e del suo entourage e la gestione della crisi con la Russia sul gas nervino utilizzato a Salisbury, così “compiacente” nei confronti del Cremlino al punto da diventare un asset per la propaganda russa: “Non sono certo un fan del ministro degli Esteri Boris Johnson – dice Campbell – Ma la continua ambiguità di Corbyn, nelle relazioni internazionali e ancor più nella Brexit, mi fa pensare che una ricomposizione sia davvero difficile”. Parla dell’Inghilterra ma anche di se stesso, della sua inconciliabilità con questa famiglia laburista che lo detesta, ricambiata: “Non si fa che chiacchierare di un partito nuovo fondato e animato da moderati europeisti, non so quante volte sono stato interpellato sulla questione: ma nel sistema britannico un terzo partito non può sopravvivere a lungo. Guarda i liberaldemocratici: erano loro il terzo partito, moderato ed europeista, e non ci sono quasi più”. Anche En Marche, in Francia, pareva un esperimento destinato al fallimento, un esercizio d’ambizione sfrenata, e ora è il primo partito, nonché quello di Macron: “E’ vero – dice Campbell – C’era molto scetticismo all’inizio anche su En Marche. Ma quella è una repubblica presidenziale, Macron era il candidato all’Eliseo, non c’era solo un movimento, c’era anche un leader: è questo che fa la differenza”. Stiamo tutti cercando un nostro Macron, in questo occidente in cui la sinistra è ridotta a un puntino rosso, ma pure la formula del nuovo leader giovane e gagliardo che fa la rivoluzione progressista non è salvifica ovunque. L’Italia ha avuto il suo Macron, prima di quello vero, ma l’ha già bruciato; hai voglia a dire che mancano le idee, la creatività, l’immaginazione, la novità: è un’argomentazione che tra le macerie dei moderati riecheggia come un violino scordato. “Lo capisco bene – dice Campbell – Ma l’unica strada che vedo per traghettare il progressismo verso il futuro è quella delle idee e dei giovani, soltanto lì si troveranno le risposte. Non parlo nemmeno più di destra o di sinistra, à la Macron. E’ il centro che è sguarnito, e deve trasformarsi in una calamita”. Come ancora non si sa, o non si capisce: certo non è rinnegando il passato o le istituzioni che ci hanno garantito pace e prosperità dal Dopoguerra che si troveranno nuove ispirazioni, ma Campbell ha molta fiducia nei giovani, nel loro attivismo, nella loro creatività. Quali giovani, quelli che votano Corbyn e lo hanno trasformato in un’icona pop come i BernieBros hanno fatto con Sanders in America? “Touché – sorride Campbell – Confido molto nella nuova generazione perché so che non può essere la mia quella che riuscirà a vincere contro i populismi e i nazionalismi. E’ vero che lo ‘youthquake’, come lo chiamiamo noi, la mobilitazione giovanile, ha spesso connotazioni molto radicali: Momentum, il gruppo di attivisti che ha creato il corbynismo e che ancora lo nutre con tutti i suoi iscritti, si fonda sull’entusiasmo giovanile, ma un motore alimentato soltanto dalla nostalgia o dalla rabbia prima o poi si inceppa: questi sentimenti non sono un carburante che dura nel tempo, tutti noi abbiamo bisogno di un sogno per domani”. Campbell ripete il suo mantra, sono-preoccupato-ma-sono-fiducioso, e se provi a dirgli che invece a te sta venendo la depressione risponde subito: “Non parlare a me di depressione, credimi”. I cicli sono più rapidi, nel bene e nel male, i leader che si aggrappano al passato o al breve termine sono destinati a scontrarsi con la realtà che è fatta di conti da far quadrare, di offerte concrete e di richiesta di risultati. Alla prova della quotidianità le infatuazioni scompaiono, restano gli amori tignosi, “e i riformatori sono così, testardi”, bisognare utilizzare questo tempo in gabbia “per inventare e immaginare, creare una prospettiva”.
Mi sento dentro cantare “Things can only get better”, la canzonetta del blairismo del 1997, ma la nostalgia è nemica, il relax è nemico, il passato è nemico, non è Alastair Campbell che oggi vuole, può dare l’ispirazione che i moderati sconfitti vanno cercando. “Ho intervistato di recente Al Gore – dice – ed è stata una conversazione molto interessante, perché ha ribadito che la democrazia ha anticorpi molto forti, basta che non ci distraiamo troppo, bisogna combattere, ed essere testardi. Per me è facile, sono fuori dalla politica, posso dire quello che voglio, l’odio nei miei confronti è soltanto mio. Per i parlamentari è tutto molto più complicato, ma per tutti è importante non distrarsi. C’è un’altra bella frase che mi ha detto Al Gore, era di George Marshall, non va dimenticata”. L’intervista cui Campbell fa riferimento è stata pubblicata da Gq nell’agosto dell’anno scorso ed è brutale: Gore vuole parlare di ambiente e di Trump, e Campbell continua a chiedergli se non pensa tutti i giorni alla Corte Suprema (“se fosse così, saresti perdonato”) e varianti di “se fossi stato tu il presidente?”. La frase da non scordarsi però è questa, la disse Marshall nel Dopoguerra, anni di ricostruzioni e di progetti ambiziosi, e riguarda i sogni, le prospettive, il futuro, una visione: “Questo è il momento di navigare guardando le stelle, non le luci di ogni nave che passa”.