Lettera da Tbilisi
Un (quasi) paradiso di architetti sperimentali, nuova industria, manager post Kgb e antichi banchetti
Tbilisi. Una casa bruciata dai russi, una famiglia senza più nulla, la nonna che ci offre il pane appena sfornato e riesce pure a sorridermi, come se fosse un giorno di festa, davanti ai resti di quello che era stato un patio. Avevo svuotato le tasche e promesso di tornare presto. Invece mi sono lasciato distrarre da altre cose e sono passati dieci anni nei quali la Georgia è molto cambiata, anche se Tbilisi resta l’unico aeroporto occidentale senza sistema di avvicinamento automatico. Non basta schiacciare un bottone, si atterra in manuale e allora meglio volare di notte con Lufthansa, i tedeschi sono i piloti più affidabili sin dai tempi di Bubi Hartmann, famoso aviatore della Luftwaffe che abbatté trecentocinquanta aerei sovietici non lontano da qui. In quel mio primo viaggio il pilota sfiorò due volte la pista nella nebbia e due volte rinunciò, urlavano tutti e io mi divertivo un sacco, forse perché ero al terzo gin tonic. Stavamo portando aiuti umanitari agli orfani di guerra, al terzo tentativo l’aereo virò verso Erevan e viaggiai per sei ore su un catorcio di pullman, il cesto di una vecchia al mio fianco si muoveva, era una gallina e ci facemmo un tuorlo d’uovo all’alba in uno spiazzo polveroso con vista sul Caucaso. Con la neve di primavera sono le montagne più belle mai viste, a sciare si dovrebbe venire solo qui, certo evitando la folle seggiovia che impazza in questi giorni su Youtube. Sarebbero le montagne più alte d’Europa se trecento anni fa il cartografo Philip Johan von Strahlenberg non avesse messo il Caucaso in Asia, cosa gli costava tirare quella riga più in basso, ci avrebbe evitato qualche guerra di posizione e tutte le storie sui record del Monte Bianco nelle mie vacanze da bambino a Courmayeur.
Come al solito ho dimenticato di prenotare un albergo, sono le 4 di notte, il taxista se la ride: hai barba e cappello, sei un architetto?
Come al solito ho dimenticato di prenotare un albergo, sono le quattro di notte, il taxista se la ride e mi porta a cercarne uno. Hai la barba e il cappello, scommetto che sei architetto. Mi prendono sempre per una specie di Renzo Piano. Architetto non sono ma con le costruzioni ho pure a che fare. Sarei qui per metter su un impianto di keramzyt, un materiale per isolare le case, c’è una cava di argilla buona e poi anche qui è arrivato il tempo della sostenibilità. Infatti l’albergo è molto bio, nel cortile interno c’è un gran muro di verde verticale, ormai se non ce l’hai sei uno sfigato e c’è legno dappertutto, soprattutto di abete, una delle più grandi risorse del paese. L’aveva capito anche Giuseppe Stalin, il georgiano più influente della storia, che amava moltissimo queste foreste. Confesso che dieci anni fa, visitando la sua casa natale a Gori e il vagone per attraversare tutte le Russie, mi ero un filo emozionato, certo ho divorato Solženicyn, Kravcenko, Koestler e pure Kingsley Amis ma alla fine prevale sempre la narrativa dell’uomo che salvò Stalingrado dai nazisti, perché senza la Grande Guerra Patriottica a noi sarebbe andata peggio, ai russi non saprei.
Per fortuna quel tempo è passato, nella lista della World Bank la Georgia è al nono posto dei paesi dove è più facile fare impresa e il governo pare interessato a investire su progetti italiani. Ha un certo merito anche Kakha Kaladze, ora sindaco di Tbilisi, quando arrivò al Milan non ci avrebbero scommesso un soldo e invece diventò un cardine dalla difesa. Duecento partite e anche la Champions, nonostante il rigore parato in finale da Buffon, lui con l’elastico e lo sguardo buio e quello che saltella e gli para il pallone col piede. Sono a due passi dal municipio, non vedo l’ora di incontrarlo per chiedergli se ha ancora quella tigre tatuata sul braccio. Mi hanno detto che incontra tutti in streaming, anche qui c’è la democrazia del server ma quando arrivo scopro che è impegnato e mi appioppano uno sbarbato del fondo di sviluppo, si chiama Eduard come Shevardnadze, ha studiato al MIT e sarà lui il mio diplomatico per tre giorni.
Vorrei raccontargli di una sera a casa di un’amica a New York, avevo conosciuto Mikhail Saakashvili, non erano giorni tranquilli, le truppe russe erano al confine dell’Ossezia ma lui stava spesso a Manhattan, gli piaceva fare jogging al parco e andar per mostre, a quella festa c’erano più agenti dei servizi che bottiglie di champagne. Meglio evitare, da queste parti l’ex presidente non ha lasciato un buon ricordo, se almeno si fosse risparmiato tutto quel casino ora qui starebbero meglio. Siamo all’epoca della normalizzazione e ogni accordo è possibile, Eduard ne parla presentando il mio futuro socio, si chiama Zurab, ha almeno sessant’anni, il sorriso pacioso, una panza invidiabile e il borsello sul fianco. Come molti imprenditori locali è un ex funzionario del Kgb e ha un inglese molto arrugginito, imparato negli anni Settanta quando fece il corso per entrare nei servizi segreti. “Like Putin. Me six years specialization, he only two years!”. Ci tiene molto a precisarlo e poi con una certa nostalgia mi racconta i primi anni di lavoro al ministero dell’Interno, a quei tempi Mosca era bellissima, erano giovani e l’amicizia contava più del denaro e si lavorava volentieri alla Lubjanka fino a tarda notte perché poi c’era da divertirsi e insomma non avevo mai considerato gli anni di Breznev come una figata pazzesca. Partiamo sgommando sul suo Suv, gli siedo a fianco e mi accorgo che il borsello è una fondina e nella fondina c’è una Stechkin semiautomatica, di quelle usate dai russi in Afghanistan. Non devi preoccuparti, mi rassicura Eduard, ha il permesso di portarla perché è un ex pezzo grosso dell’apparato. In altre parole, ho appena trovato il socio ideale.
Zurab mi spiega che c’è molto da costruire, non solo sulla costa lui realizza case per la nuova borghesia e il nostro materiale sarebbe l’ideale. Ai bei tempi con la keramzyt ci facevano tutti gli edifici residenziali del blocco sovietico, da Praga a Vladivostok, ne ho visti centinaia e mai uno che fosse allegro e facesse rima con avanti o popolo, alla riscossa. Certo di keramzyt ne usavano in quantità, la facevano bella gonfia e mai troppo resistente, tutti gli impianti li disegnavano a Samara e ovunque fossi ti cuccavi il progetto dell’ufficio centrale anche se la materia prima era un’altra o la casa la volevi fare un po’ diversa e così i pannelli si sfaldavano e con i pannelli le case e con le case il progetto socialista.
Questa volta sarà meglio partire dalla materia prima, ci dirigiamo verso le montagne e guardando le bancarelle ai lati della strada mi viene una gran voglia di churchkhela, sembrano arrosticini appesi al sole ma fatti di noci, mandorle e uvetta. Se ad Alba li mettessero in produzione sarebbe la fine dei Ferrero Rocher, te lo immagini Ambrogio che invece dei cioccolatini tira fuori per la contessa il succulento bastoncino? Al primo morso mi passa subito il languorino, dopo un attimo siamo sull’area di cava dove troviamo un tecnico, il governatore e due geologi. L’argilla sembra buona e abbondante, i primi test hanno dato esito positivo. C’è un paesaggio infinito di laghi e fiumi. Mando una foto dall’altra parte del mondo. Mi risponde in un secondo, che sconfinato, che bello.
Bancarelle di cibo nel centro di Tblisi. Foto LaPresse |
Andiamo al monastero di Nekresi, la strada che sale ripida e impervia e in effetti è una via crucis. Ma perché ci tocca sempre soffrire se lui l’ha già fatto per noi? In effetti ne valeva la pena, il posto è magnifico, c’è una grande tavola imbandita e prima di sederci ci portano a vedere i kwevri, le anfore interrate per la vinificazione al naturale. Si dice che il vino sia nato qui e allora l’umanità deve essere grata alla Georgia, è un nettare leggero ed è una vera fortuna perché brindiamo per ore ed è un banchetto infinito e l’unico a non goderne è un bellissimo cane che ci osserva dalla soglia e vorrebbe precipitarsi sui piatti di formaggio sulguni e pane al forno, agnello arrosto e melanzane, khachapuri con formaggio e uova, non ha il coraggio di avvicinarsi ed è così carino che me lo porterei a casa. Brindiamo ai padri, ai nonni, ai santi, ai popoli, alle donne, al business, alla pace, all’amicizia tra i popoli e dopo quattro ore arriva una caterva di khinkali, i temutissimi ravioli col brodo caldo. Se ci fosse Fantozzi, dopo averlo addentato andrebbe a urlare oltre il confine armeno.
Il mio futuro socio si chiama Zurab, ha almeno sessant’anni, il sorriso pacioso e il borsello con la pistola. Un ex funzionario del Kgb
Siamo euforici. Il mio futuro socio barcolla, ride ad alta voce, si alza, va verso il giardino e spara due colpi nel buio. Sento il cane guaire e poi più nulla, non saprei dire se lo ha colpito. Faccio finta di niente, di certo non me lo porto a casa. Sarà meglio non raccontarlo a mia sorella. Se la ridono e se la bevono. Altri abbracci e si riparte. Per riprendermi mi metto dietro a dormire. Tornati in città mi faccio lasciare davanti al ministero delle Autostrade, il mio edificio della storia dell’architettura. Certo Alberti, Borromini, Schinkel, i geni del costruire sono stati tanti, ma alla fine il vero miracolo dell’uomo è il cemento armato, portatore di benessere e uguaglianza e in questo la Velasca è una meraviglia e pure le torri di Ernö Goldfinger ma il mio vero, grande eroe è George Chakhava. Mi piace immaginarlo mentre disegna questo gioiello a stecche sovrapposte e chissà che faccia quelli della commissione edilizia, starci dentro deve essere come vivere nella città del futuro o in un film di Stanley Kubrick e che l’Unesco si sbrighi a metterci il bollino perché questo edificio è unico al mondo.
La mattina mi portano a vedere un’area industriale, un campo brullo tra fabbriche di epoca sovietica, un’acciaieria, una centrale termoelettrica, un cementificio e un impianto di produzione di azoto che ha un camino da cui esce un bel fumo giallo. Una nuova fabbrica qui è una passeggiata, mica siamo al centro della Food Valley con comitati ambientalisti ovunque e poi c’è pure il raccordo ferroviario per portare i materiali in tutta la regione. Tutto intorno è un paesaggio di tralicci e ruggine ovunque, sembra di stare nelle copertine dei Pink Floyd. In quel mentre mi squilla il cellulare, mi distraggo un attimo e pesto un’enorme merda di vacca. Deve essere il mio giorno fortunato, insomma niente banchetti e niente sparatorie.
Il vero miracolo dell’uomo è il cemento armato, portatore di benessere e uguaglianza. Il ministero dell’Industria ricorda il Corviale
Ci ritroviamo al ministero dell’Industria, un palazzo di un chilometro che ricorda il Corviale. C’è una lunghissima sala riunioni e sul muro una foto di Gogi Topadze, l’imprenditore locale che ha dato al suo partito uno dei nomi più belli mai inventati, Industry will change Georgia. Un solo deputato eletto e un grande insuccesso elettorale, come sempre succede ai partiti che stanno dalla parte giusta. Ci ritroviamo attorno al tavolo, hanno messo le bandierine nazionali e c’è una segretaria biondissima, sembra arrivata dal rave di Kazantip e mi fa un sorriso che trasforma il caffè da pessimo a fantastico. Spiego il layout della fabbrica, il piano dei costi, il business plan e il fabbisogno finanziario. Ascoltano tutti senza dire una parola. Quando illustro la nostra richiesta economica, Zurab mi guarda con aria cupa. Non capisco se è stanco o contrariato. Solo trenta operai? Pensavamo almeno cento. Anche qui si tende al reddito di cittadinanza. Assistenzialismo uguale consenso. Parlo di ritorno al futuro. Preferiremmo investire in tecnologia. Si mettono a discutere in georgiano. Vanno avanti per due ore e alla fine mi mollano da solo in albergo.
Mi consolo con un drink al Club Iveria, stasera c’è Bahador Kharazmi da Teheran, il top della techno house con influenze parsi. La vodka scende a fiumi e spopolano le minigonne in pelle e certi tacchi che fanno paura. Se almeno spiaccicassi due parole potrei raccontare a tutti che sono amico di dj Spooky. Non mi ci metto proprio, sono ancora inchiodato alla ventesima lezione di russo. Torno attraversando il parco e nel buio sono un po’ preoccupato, vedo delle strane ombre, i georgiani sono gran lottatori e di recente non ho fatto molto sparring, per fortuna ho le Cofra con puntale metallico, le scarpe da fabbrica, basta un calcio negli stinchi per abbattere chiunque. Sto già pensando a come difendermi quando mi investe una luce, è il Ponte della Pace disegnato da Michele De Lucchi. Al contrario del nome, è in guerra con tutto ciò che lo circonda, ha le luci che si accendono e spengono in continuazione e la copertura sembra una pelle di armadillo. Nemmeno Calatrava avrebbe osato un tale luna park e infatti c’è la fila di coppiette a farsi i selfie. A due passi c’è l’anagrafe di Massimiliano Fuksas, un volume articolato e coperto da petali di loto, stile Utzon ma non posso e sempre suo il Music Theatre and Exhibition Hall, due tubi di specchi che sembrano una scultura di Anish Kapoor, solo che questi non li smontano a fine mostra. Per fortuna è tutto molto vicino e basterebbe una bomba a grappolo per riportate Tbilisi all’antico splendore. Chissà cosa ne pensa il mio futuro socio e se davvero ci è rimasto così male per la mia richiesta. Speriamo che la notte gli porti consiglio.
Prima dell’alba mi chiamano dalla reception. Zurab mi sta aspettando nel parcheggio. Forse vuole eliminarmi prima che sia troppo tardi e buttarmi in un sacco di juta dal ponte di De Lucchi. Che fine orribile! Sto già pensando alle mie ultime parole e prego perché non mi salti in testa del patriottismo degenere in stile Giorgia Meloni. Invece Zurab mi bacia sulla guancia e mi carica in macchina e dopo due minuti tra i viottoli della città antica eccoci ai bagni termali. Scegliamo il N. 5, che non è il profumo tanto amato da Marilyn Monroe. L’ingresso costa tre lari, meno di un euro, siamo in quello più popolare. Gli armadietti di metallo arrugginito sono ideali per lasciare la pistola, si gioca a domino e si fuma senza filtro bevendo piccoli bicchieri di tè. Ci spogliamo ed entriamo nella grande sala con la cupola del Seicento e ci immergiamo insieme nella vasca di acqua sulfurea. Mi tocca pure il massaggio e non poteva che chiamarsi Giorgi, è un angelo sterminatore di pelli secche, mi insapona e mi massaggia, a un certo punto temo davvero che mi stia staccando un piede ma alla fine mi sento rinato. Guardo Zurab che sta ancora nel vascone sulfureo. Mi fa un bel sorriso, come quello della nonna sotto il patio bruciato dai russi. Ricordo come fosse oggi il sapore di quel pane appena sfornato. Da queste parti sanno bene cosa vuol dire ospitalità. Penso che in Georgia ci tornerò molto presto.