Élite e castigo: appunti sulle democrazie illiberali
Un'indagine che parte da un sabato di molti anni fa fino allo scontro di civiltà che si sta compiendo oggi, nel cuore della nostra Europa
Tutta questa felicità esibita risulta sospetta, pensa Henry Perowne, protagonista di “Sabato”, romanzo di Ian McEwan, “sono tutti eccitati all’idea di essere in piazza insieme, sembra vogliano stringersi in un grande abbraccio reciproco. Se pensano, e potrebbero avere ragione, che la tortura perpetua, le esecuzioni sommarie, le pulizie etniche e i genocidi occasionali siano preferibili a un’invasione, farebbero bene a mantenere un contegno sobrio”. Sono le nove del mattino, Perowne sta preparando il caffè, deve ancora telefonare in ospedale per parlare con il medico di turno del risultato di una biopsia, è sabato, il sabato che dà il titolo al romanzo, il 15 febbraio del 2003, il giorno della manifestazione contro l’imminente guerra in Iraq che sta bloccando Londra e anche un pezzetto della vita di questo neurochirurgo quasi cinquantenne che con le sue considerazioni ha fatto innervosire parecchi lettori. Il pacifismo oceanico di quella giornata è scandito dagli slogan contro Tony Blair e George W. Bush, l’inglese e l’americano guarrafondai, e dai tanti cartelloni fatti in casa, facciamoci un tè invece che la guerra, Mary e Sam sono contro le invasioni, io e te contro i boots on the ground, stringiamoci forte e combattiamo questo scempio – molto calore, anche i pollivendoli tra i manifestanti (lo sottolineò l’Observer), poca sobrietà. A Glasgow, l’ex premier laburista intanto diceva: “Non cerco l’impopolarità come una medaglia al valore. Ma a volte l’impopolarità è il prezzo della leadership e il costo della propria convinzione”.
Oggi nessuno scende in piazza per dire la propria sulla guerra, anche se torture ed esecuzioni sommarie e attacchi chimici sono lì, dall’altra parte del Mediterraneo, a guardarci con gli occhi straziati e le bocche piene di saliva. Nessuno discute più di che cosa si possa fare contro i jihadisti e contro i dittatori, e anzi molti dicono che questa apatia è proprio l’esito della sciagurata guerra d’Iraq: conviene star fermi. Il magazine Foreign Policy ha messo in copertina una colomba trafitta dalle frecce: “La fine dei diritti umani?” è il titolo, e il punto interrogativo sembra la carezza che ti dà un amico quando piangi per qualcuno che ami. In questo misto di indifferenza e realismo, si moltiplicano le impunità, abbatti un aereo di linea e non ti succede nulla, usi le armi chimiche e non ti succede (quasi) nulla; le questioni umanitarie sono considerate materia buona per gli idealisti da salotto e per chi, sul campo, si preoccupa che i convogli con cibi e medicine arrivino, una volta su dieci, a destinazione.
“Contro di noi ci sono quelli che vogliono le società aperte, un mondo senza confini e senza nazioni, nuove forme di famiglia”, ha detto Orbán
Abbiamo ironizzato a lungo, per anni, sulla democrazia da esportare, era diventata una battuta tra gli esportatori (gli importatori non la prendono comunque sul serio, l’offerta di democrazia); ci siamo interrogati sulla definizione di democrazia, abbiamo trovato ogni genere di sfumatura, democrazia sì ma non quella degli americani imperialisti, democrazia sì ma non con i soldati a garantirla e proteggerla, democrazia sì ma che non sia un’imposizione culturale, sia mai che ci sia un colonialismo democratico qualsiasi cosa esso sia. Poi milioni di persone camminavano per giorni, rischiando di essere ammazzate, per andare a votare, attività democratica per eccellenza anche in tempo di guerra, soprattutto in tempo di guerra, ed ecco ancora le distinzioni sul significato della democrazia dal basso e democrazia caduta dall’alto, come un angelo troppo pesante. Abbiamo tutti alzato il sopracciglio e sottolineato una distinzione, mentre adesso se ti imbatti in una foto delle dita blu-viola dell’inchiostro del seggio sventolate da volti raggianti, non puoi non commuoverti.
A furia di interrogarci sulla bontà del nostro modello, la democrazia liberale della collaborazione, della prosperità e della pace, ora stiamo perdendo la democrazia pure qui da noi. Non dev’essere una coincidenza: avevamo lo slancio degli esportatori e poi, tra crisi di vario tipo – economica, identitaria, politica – ci siamo ritrovati con la tentazione di lasciar marcire il nostro bene più prezioso. Di più: la democrazia è diventata un patrimonio delle élite liberali, un privilegio acquisito di qualcuno a danno di altri. Se parli e difendi la democrazia sei figlio delle élite, della globalizzazione, dell’apertura, di quella cultura di mobilità e occasioni che fa parte dell’occidente: le nostre libertà non sembrano più un patrimonio comune, ma un ammennicolo di chi non comprende, o addirittura ignora e rifiuta, la volontà del popolo, la sua pancia. “Il liberalismo è oggi definito in modo uguale all’ideologia delle cosiddette ‘élite liberali’ – ha scritto la politologa turca Nuray Mert – Se è giusto discutere di come la crescita del populismo rifletta il risentimento contro le élite liberali, è facile anche confondere i valori del liberalismo politico (un pilastro della democrazia) con il distacco delle élite dal resto della società. I princìpi del liberalismo politico hanno a che fare con il pluralismo (il rispetto per le differenze e il dissenso) e le libertà individuali più che con i capricci di certe élite alienate dal mondo”.
L’ascesa della “democrazia illiberale”, di cui parlava l’editorialista Fareed Zakaria nel 1997, in contrapposizione alla democrazia liberale, si è compiuta. Allora il concetto non era elaborato in modo estremamente minaccioso. La democrazia illiberale era un’alternativa un po’ più oppressiva al modello euro-americocentrico, al punto che si è via via declinata nella sua versione “asiatica” e in un’altra definizione, di minor successo: autoritarismo competitivo. E’ una zona di mezzo, di trasformazione, ma ancora per molto tempo si sarebbe creduto con indefessa certezza che l’approdo finale sarebbe comunque stato il nostro, la democrazia degli esportatori. Oggi questa convinzione non c’è più, anzi semmai ci stiamo rassegnando all’idea che lo scivolamento verso l’autoritarismo sia inevitabile, il fascino per l’uomo forte che tiene in ordine e al sicuro i suoi cittadini – e pazienza se nel frattempo pluralismo e dibattito interno si seccano: rifioriranno quando sarà il momento – è diventato innamoramento. Il dibattito politico in occidente è una riedizione locale di quel “parlare sì o no con il nemico” che tormenta la politica internazionale: scendiamo a patti con le forze che combattono i nostri stessi valori? Con chi combatte l’Europa, combatte i “cuori stranieri”, cioè gli immigrati, in difesa del nazional-sovranismo? Guardando i titoli dei giornali anche internazionali, si ha la sensazione che il dialogo sia la strada preferita: alcuni la imboccano con apparente ingenuità, altri perché sanno che, nello scontro tra i democratici schizzinosi e gli illiberali, è facile capire chi vince.
Come ha scritto Yascha Mounk nel suo ultimo libro, “People vs Democracy”, la democrazia liberale è un’equazione formata da due elementi principali. Uno riguarda la protezione delle persone da varie forme di tirannia – è il sistema istituzionale di divisione dei poteri. Il secondo riguarda il potere del popolo, la maggioranza che segnala qual è il proprio miglior destino. Per gran parte del Dopoguerra non ci siamo mai soffermati troppo su questi due elementi: procedevano di pari passo, a braccetto. Poi ci sono stati i problemi economici, la rivoluzione dei social media che ha trasferito rilevanza dai media tradizionali ai “combattenti del laptop”, l’immigrazione, la politicizzazione delle identità e così lo scontro culturale si è trasformato del tutto. Da una parte ci sono i democrati illiberali, una democrazia con pochi diritti, dall’altra c’è il liberalismo non-democratico, molti diritti senza democrazia, entità sovrazionali come l’Unione europea. In mezzo gli elettori che tra rabbia, malcontento, solitudine, intolleranze di vario tipo si muovono contro il sistema dei partiti tradizionali.
A furia di interrogarci sulla bontà della democrazia liberale, rischiamo di perderla persino noi, che ne eravamo gli esportatori
La vittoria di Viktor Orbán in Ungheria è la rappresentazione di questo scivolamento e della dicotomia tra democrazia e liberalismo. A febbraio, a campagna elettorale appena iniziata, Orbán, premier dal 2010 confermato nel suo terzo mandato consecutivo al voto di domenica, diceva: “Il pericolo ci minaccia da occidente. Il pericolo per noi arriva dai politici di Bruxelles, Berlino e Parigi”. Quella di Orbán è “una controrivoluzione vigorosa contro l’ortodossia liberaldemocratica”, ha scritto Richard Cohen sul New York Times. Il premier ungherese ha farcito la sua retorica elettorale e di governo con un piano preciso, che ha delineato lui stesso nel discorso che ha tenuto il 16 marzo scorso, in occasione del 170esimo anniversario della rivoluzione ungherese del 1848: “L’Europa, e al suo interno anche noi ungheresi, è arrivata a un punto di svolta della storia mondiale. Le forze nazionali e globaliste non avevano mai regolato i conti in modo così palese e pubblico prima d’ora. Noi, milioni di persone con forti sentimenti nazionali, siamo da una parte; le élite dei ‘cittadini del mondo’ sono dall’altra. Noi che crediamo negli stati-nazione, nella difesa dei confini, della famiglia e del valore del lavoro siamo da una parte. Contro di noi ci sono quelli che vogliono le società aperte, un mondo senza confini e senza nazioni, nuove forme di famiglia, lavori poco considerati e lavoratori a buon mercato – e sono tutti sovrastati da un esercito di burocrati nell’ombra che non devono rendere conto a nessuno. Da una parte ci sono le forze nazionali e democratiche; dall’altra le forze sovranazionali e antidemocratiche”. Poco dopo, Orbán ha specificato meglio: “L’Europa e l’Ungheria sono nell’epicentro dello scontro di civiltà in corso”. Il discorso poi continuava con le accuse non all’opposizione interna, ma al network internazionale unito come “un impero”, sotto la guida di George Soros, che combatte contro il futuro stesso della nazione ungherese: dopo tutto quel che abbiamo fatto per conquistare la nostra libertà – ha detto Orbán – se nel futuro non saremo più la nazione ungherese, a che cosa sarà servito tutto questo progresso?
Questo è il discorso-manifesto del premier dalla vittoria grandiosa di Budapest, il democrata illiberale. L’Ungheria non è un regime totalitario da polizia segreta: gli investimenti stranieri sono ben accetti, il sistema mediatico è sotto pressione ma non è collassato (anche se con tutta probabilità non ci accorgeremo del collasso: rimarremo sotto le macerie anche noi), i funzionari dell’Ocse hanno detto che le elezioni sono state molto tese ma non con brogli eclatanti. E’ l’ibrido della democrazia illiberale, in cui Orbán può ancora essere definito “democratico” ed è contento di essere illiberale, perché in opposizione ai liberali e alle élite. Ma il percorso di questa trasformazione ungherese – che riguarda anche la Polonia e che ha già riguardato altri paesi, come la Russia o la Turchia – è piuttosto chiaro: lo stato di diritto si sta erodendo, e il fatto che si tengano le elezioni è certamente fondamentale, ma non deve distogliere dagli altri pezzetti di democrazia che via via si vanno staccando dal sogno ungherese. Come ha scritto sul New York Times il professore di Princeton Jan-Werner Müller, “si continueranno a tenere elezioni, ma un reale turnover di potere sarà pressoché impossibile”, e nell’assenza dell’alternanza c’è un’evoluzione non esattamente democratica. Ma quel che conta è soprattutto che la base della discussione non è più o non solo la tenuta del dialogo istituzionale che garantisce il sistema democratico, quanto lo scontro di civiltà nel cuore stesso dell’Europa. “Orbán ha trasformato un dibattito sulle istituzioni democratiche in una guerra culturale”, ha scritto Müller. Che è esattamente il motivo per cui uno come Steve Bannon, che di questi illiberalismi vorrebbe diventare il regista e si sta industriando nella creazione di una piattaforma un po’ mediatica e un po’ centro studi per agevolare la convergenza internazionale, abbia visto in Orbán “l’uomo più importante sulla scena oggi”.
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