Perché la perquisizione dell'avvocato preoccupa Trump più della Siria
Fonti della Casa Bianca riferiscono che la vicenda di Cohen è il catalizzatore della sua rabbia incontrollata, ché con la sua azione Mueller ha varcato “la linea rossa”
New York. Donald Trump vive di tirate, reazioni iperboliche ed esplosioni umorali, sono l’essenza del suo stile di governo, ma quella di lunedì, dopo la perquisizione dell’ufficio del suo avvocato personale, Michael Cohen, è stata una scossa di magnitudo imparagonabile a quelle del recente passato. Il presidente ha ringhiato contro la “caccia alle streghe”, ha parlato di una “situazione disgraziata”, di un “attacco al nostro paese in senso proprio” per via di un’azione che Cohen ha definito “sproporzionata e non necessaria”, guidata da quello special counsel, Robert Mueller, che ciclicamente Trump minaccia velatamente di licenziare. Questa volta il pensiero è stato anche meno velato del solito, alimentato dalla convinzione che “questa volta abbiamo raggiunto un nuovo livello di ingiustizia”. Il moto iracondo non si è placato nel corso della notte: il presidente si è svegliato ieri mattina lamentando ancora la “morte del privilegio fra il cliente e l’avvocato” e la “totale caccia alle streghe” in atto da parte del “più fazioso gruppo” di inquirenti. Non che Trump non avesse altre preoccupazioni su cui twittare. Il presidente ha cancellato un viaggio in America Latina – affidando la missione a Mike Pence – ufficialmente per seguire gli sviluppi della situazione in Siria, dove ha promesso una reazione belligerante coordinata con i partner internazionali dopo l’ennesimo attacco chimico del regime di Bashar el Assad. Nel frattempo il consigliere Thomas Bossert, uno degli uomini più vicini al presidente sulla sicurezza nazionale, si è dimesso, giusto un giorno dopo l’ingresso nella West Wing di John Bolton, il falco con i baffi che promette di guidare la metamorfosi aggressiva della politica estera americana.
Nonostante i monumentali dossier che passano sulla scrivania presidenziale, molte fonti della Casa Bianca riferiscono che la vicenda di Cohen è il catalizzatore della sua rabbia incontrollata, ché con la sua azione Mueller ha varcato “la linea rossa” fra “il caso politico e la vicenda personale”, come ha detto un adviser. Gli agenti dell’Fbi che hanno perquisito l’ufficio di cercavano innanzitutto tracce di pagamenti fatti a due donne che dicono di avere avuto una relazione di qualche tipo con Trump, e di essere poi state pagate per tacere. Per ammissione dell’avvocato, la pornostar Stormy Daniels ha ricevuto un pagamento di 130 mila dollari attraverso una società che fa riferimento a lui, mentre l’ex modella di Playboy Karen McDougal dice di aver ricevuto 150 mila dollari per nascondere una relazione con Trump durata un anno, poco dopo la nascita del figlio Barron. Questo secondo versamento è stato fatto dalla American Media Inc., la compagnia che controlla il National Enquirer, il tabloid più selvaggio e trumpiano in circolazione.
Perché Trump, incalzato dalla crisi siriana e dalla guerra commerciale con la Cina, s’imbestialisce così tanto per una perquisizione? Innanzitutto, perché si tratta della prima crisi dopo le dimissioni di Hope Hicks. La direttrice della comunicazione era la persona incaricata di massaggiare l’umore del presidente nel mezzo delle tempeste e offrire una strategia per calmare le acque. Senza di lei il presidente non ha argini. La seconda ragione ha invece a che fare con la natura della perquisizione degli uffici di Cohen. Non è stato, infatti, il team di Mueller a condurre l’operazione, ma il mandato è stato emesso dal distretto sud della procura di New York, su segnalazione del procuratore speciale. Mueller, in sostanza, ha incontrato nel corso delle indagini indizi di reato che uscivano dalla sua pur ampia giurisdizione e li ha segnalati alla procura competente, allargando una rete investigativa che non cadrebbe nemmeno se Trump decidesse di licenziare lo special counsel. L’ironia del caso è che il procuratore che ha emesso il mandato, Geoffrey Berman, è un sostenitore del presidente nominato giusto qualche mese fa dal procuratore generale. Il dialogo fra il team di Mueller e la giustizia ordinaria ha infuso il senso che l’inchiesta che fin qui “si è mossa un centimetro per volta, in un giorno abbia fatto un miglio”, come ha detto un consigliere del furibondo Trump”.