La fine di Haftar
Voleva diventare l’uomo forte della Libia, non era più una minaccia per il governo “italiano” di Tripoli
Roma. Ieri il parlamentare egiziano Mostafa Bakry ha dato per primo la notizia della presunta morte di Khalifa Haftar, il feldmaresciallo che controlla l’est della Libia – la Cirenaica – e che aspirava a diventare il nuovo uomo forte dell’intero paese, di nuovo riunificato sotto la sua guida. L’egiziano Bakry non è una fonte attendibilissima, è da lui che nel 2015 partì la finta notizia che le truppe egiziane avevano cominciato un’operazione di terra molto in profondità in Libia per uccidere terroristi, ma poi si sono aggiunte altre fonti sparse. Haftar era da giorni ricoverato in un ospedale militare di Parigi in condizioni gravi per un tumore al cervello – da mesi circolavano rumors sulle sue condizioni di salute – a dispetto del fatto che il suo staff continuasse a negare e a dire che stava bene. L’ultima volta che era stato visto in pubblico risale alla fine di marzo e quale che sia la verità sulla sua fine a questo punto è chiaro che uno degli attori politici più importanti della Libia è sparito e che la sua ascesa verso il potere si è interrotta. Catturato durante una battaglia con il Ciad quando era un generale di Muammar Gheddafi, Haftar aveva trascorso vent’anni in esilio in Virginia vicino Langley, la sede della Cia, prima di tornare in Libia dopo la rivolta contro il rais nel 2011. Dopo un primo tentativo di colpo di stato consumato con un discorso televisivo seguito dal niente, che gli aveva procurato soltanto un’ondata di ridicolo, era diventato il comandante delle forze di Bengasi e aveva lanciato una lunga campagna chiamata “Operazione Karama”, che in arabo vuol dire dignità, contro i gruppi estremisti che controllavano settori interi della città, incluso lo Stato islamico.
Haftar riceveva aiuto dalle forze speciali francesi, era appoggiato dalle milizie salafite locali ed era diventato l’interlocutore privilegiato dalla Russia in Libia. Per lui il governo di Tripoli appoggiato dall’Italia era un ostacolo verso la riunificazione della Libia sotto il suo comando, ma “da circa un anno Haftar aveva cessato di essere una minaccia per Tripoli, prima dal punto di vista militare e poi di conseguenza, qualche mese dopo, anche da quello diplomatico”, dice al Foglio Jalel Harchaoui, che lavora per la North Africa Risk Consulting (specializzata in analisi sulla regione) e per l’Università di Parigi VII (l’intervista è stata fatta prima della notizia della morte). “Haftar stava perdendo la sua rilevanza. Il problema è che non c’è nessun successore pronto a prendere il suo posto e non mi aspetto una transizione di potere senza scossoni. Non aveva preparato nessuno a succedergli, nemmeno i suoi figli. I suoi figli sono molto importanti in Cirenaica, ma non hanno un piano pronto e ci sarà un’accelerazione delle divisioni fra le varie fazioni sotto il suo comando che si potevano già vedere da tempo, per esempio tra le forze speciali al Saiqa e l’esercito regolare, o tra i leader militari e quelli civili”. E le potenze straniere? “Non cadranno nel panico – dice Harchaoui – in gran parte sono responsabili per la mancanza di un successore chiaro e non sentono il bisogno di essere leali con i figli di Haftar. Prenderanno tempo e a meno che non ci sia una deriva islamista fuori controllo aspetteranno, fino a quando non troveranno qualcuno”. Cambierà qualcosa nel confronto in Libia tra Italia e Francia? “Il tramonto di Haftar farà sembrare l’Italia leggermente più furba della Francia. Ma i problemi tra i due paesi sono dovuti a quello che succede nella metà occidentale del paese, e quella parte non cambierà”.