Il ricercatore russo del caso Cambridge attacca Zuckerberg per salvarsi
Aleksandr Kogan è l’anello di congiunzione tra il social network e la società di analisi dati che lavorava per Donald Trump e ha avuto il ruolo del cattivo. Il personaggio perfetto a cui attribuire la colpa
Roma. Nella saga di Facebook e di Cambridge Analytica, Aleksandr Kogan ha il ruolo del cattivo. Kogan è il ricercatore di Cambridge (University) che ha preso i dati di 87 milioni di utenti Facebook attraverso un’app per scopi di ricerca scientifica e poi li ha venduti, in violazione delle regole di Facebook, ad Analytica, che li ha usati per fare targeting politico. Kogan è l’anello di congiunzione tra il social network e la società di analisi dati che lavorava per Donald Trump. In più è mezzo russo, e questo aggiunge un’aurea spionistica all’intera vicenda.
Kogan è il personaggio perfetto a cui attribuire la colpa. Non è un caso che Facebook abbia comprato pagine di giornale per accusarlo, e che Zuckerberg, prima sui media e poi davanti al Congresso, l’abbia indicato più volte come il responsabile principale del disastro. Oggi dovrà testimoniare davanti al Parlamento britannico (mentre nei prossimi giorni il whistleblower Christopher Wylie sarà davanti al Congresso americano), e ha preparato il terreno con una serie di interviste (in tv a 60 Minutes e online a Buzzfeed, più alcuni articoli pubblicati sui media americani) per smentire la retorica di Facebook. Kogan, lungi dall’essere un estraneo, teneva seminari di psicologia comportamentale a Menlo Park. Due suoi collaboratori e colleghi, Pete Fleming e Joseph Chancellor, sono entrati in Facebook e hanno assunto ruoli dirigenziali: uno è capo della ricerca a Instagram, l’altro ha lasciato l’azienda soltanto alla fine del 2015. Insomma, dice Kogan: ho sbagliato, ma la versione di Zuck, secondo cui Facebook è stato tradito da un ricercatore corrotto, non tiene. Facebook e il ricercatore avevano ampi contatti, e l’uno sapeva quello che stava facendo l’altro.
Le due versioni contrastanti sul caso Cambridge, quella di Zuck e quella di Kogan, apparterrebbero a una vicenda che ormai orbita alla periferia del ciclo delle news se non fossero il segnale di un’altra lotta: la gran guerra di lobby e pr che le compagnie tech si preparano a fare contro ogni forma di regolamentazione. Anzitutto, quella del Congresso americano. Far passare tra i ben poco ferrati membri del legislativo di Washington l’idea che il caso Cambridge sia isolato e irripetibile, piuttosto che un problema connaturato alla natura stessa di Facebook, è cruciale per la sopravvivenza del social network: incolpare Kogan è più facile che cambiare radicalmente modello di business (Kogan, dal canto suo, vuole sottolineare la connivenza con Facebook per scaricare qualche responsabilità e salvare quello che resta della sua carriera accademica e da consulente).
Incombe inoltre il Gdpr, la nuova regolamentazione europea sulla protezione dei dati che entrerà in vigore a maggio e contro la quale le compagnie del digitale hanno iniziato già da tempo ad attrezzarsi. Ieri sul Financial Times si raccontava che Google sta scaricando sugli editori e sui produttori di contenuti tutte le responsabilità che gli spetterebbero in base alla nuova legge europea, e che in generale la Silicon Valley sta cercando in tutti i modi di aggirare e vanificare i buoni propositi di protezione dei dati personali degli utenti imposti dall’Unione europea. Insomma, è iniziata la guerra di lobby. Per vincerla, è necessario controllare il messaggio. Per questo importa ancora cosa dice Aleksandr Kogan.