Il negoziato su Dublino si sta mettendo male per l'Italia (che reagisce)
I cinque paesi del Mediterraneo inviano una lettera per contrastare le resistenze dei paesi dell’Europa centrale e orientale sulla redistribuzione dei migranti
Bruxelles. Il negoziato sulla riforma di Dublino sta prendendo una piega rischiosa, come dimostra la lettera inviata da Italia, Spagna, Grecia, Cipro e Malta per contestare la proposta di compromesso messa sul tavolo dalla presidenza bulgara dell’Ue con l’obiettivo di trovare entro giugno un accordo tra governi sulle nuove regole nel settore dell’asilo. I Cinque sostengono che i paesi in prima linea continuerebbero a sopportare gran parte del carico migratorio: “Gli sforzi realizzati dagli stati membri in prima linea nel controllo delle frontiere esterne comuni dell’Ue soggette a significativa pressione migratoria così come, laddove appropriato, nelle attività Sar (ricerca e soccorso in mare, ndr), dovrebbero essere riconosciuti nel contesto del regolamento di Dublino”, dice il position paper dei Cinque paesi in risposta al compromesso bulgaro. La bozza di accordo ruota attorno al concetto di “fair share” di richiedenti asilo: la cifra di rifugiati (gli immigrati economici sono esclusi) che ciascuno stato membro dovrebbe accogliere in tempi normali, fissata sulla base degli arrivi dell’anno precedente e di una chiave di ripartizione che ruota attorno a pil e popolazione. Superata la “fair share” scatterebbero una serie di misure di sostegno da parte dell’Ue, ma la redistribuzione in altri paesi (al massimo 200 mila richiedenti asilo) partirebbe solo in casi di emergenze molto gravi: quote volontarie quando il numero di arrivi nell’Ue supera il 160 per cento dell’anno precedente (con il voto a maggioranza degli stati membri); quote obbligatorie se il flusso supera per più di due anni il 180 per cento (con l’unanimità dei capi di stato e di governo). I paesi allergici alla ridistribuzione potrebbero farla franca con misure compensatorie come un contributo di 30 mila euro per ciascun richiedente asilo che rifiutano di prendersi. “Alcune delle misure previste nella proposta della presidenza (il reinsediamento e il contributo finanziario di 30 mila euro invece della allocazione) non sarebbero utili per alleviare immediatamente il carico sullo stato membro di primo ingresso”, dice la lettera dei Cinque.
Di fatto la bozza di compromesso bulgaro svuota la riforma di Dublino delle innovazioni che erano state proposte dalla Commissione e dall’Europarlamento, come le quote obbligatorie di ripartizione con 250 mila euro di penale per ogni richiedente asilo rifiutato o la fine del principio del paese di primo ingresso. Le resistenze dei paesi dell’Europa centrale e orientale si fanno sentire. Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha minacciato di togliere la riforma di Dublino dall’agenda dei leader, se al Vertice di giugno non ci sarà un compromesso politico. In questo contesto, la tentazione potrebbe essere di incassare quel poco di aiuto finanziario e logistico che l’Ue offre. Con spirito costruttivo, la lettera dei Cinque indica la volontà di negoziare il testo.
La trappola si nasconde altrove. Come accaduto nelle precedenti riforme di Dublino, i paesi di primo ingresso rischiano di vedere aggravata la loro posizione. La presidenza bulgara introduce il concetto di “responsabilità stabile” degli stati membri per i migranti che entrano nel loro territorio di una durata di 10 anni: scoraggia così i movimenti secondari verso altri paesi. Il risultato è che l’Italia, la Grecia e la Spagna (i tre paesi più sotto pressione) sarebbero responsabili di chi arriva sul loro territorio per un decennio, con altri obblighi aggiuntivi.
Nella lettera i Cinque chiedono di ridurre da 10 a 2 anni la “responsabilità stabile” e sottolineano che in tempi di crisi migratorie le procedure diventano impossibili da rispettare. Il risultato finale è che “non c’è un bilanciamento giusto ed equilibrato tra responsabilità e solidarietà”, spiega al Foglio una fonte europea. Il rischio per i Cinque è di diventare quel che sono oggi le isole greche: campi per rifugiati e migranti intrappolati dalle procedure dell’Ue.