Farfalle sinistre
Il Labour inglese, il suo metodo, il bruco e l’ultimatum. Cosa ci dice di noi il progetto di Corbyn
Il bruco è diventato farfalla e i moderati si sono ritrovati senza ali, senza colori, nel bozzolo in cui si soffoca. La morte del New Labour inglese ha dato vita al Labour corbyniano, che ha l’aspetto un po’ sgualcito e antico, pare uscito da una teca del museo, ma vola, e molti lo guardano estasiati: siamo vivi. La sinistra inglese, a differenza di molte altre sinistre continentali che vivono sulla riva della frattura ideologica tra moderati e radicali senza spesso riconoscere i cadaveri che passano ha deciso, ha scelto: s’è buttata tutta a sinistra, centro addio, non ti amo più. E per quanto i moderati protestino, la decisione sembra funzionare: si vota alle amministrative la settimana prossima, il 3 maggio, e il Labour è dato vincitore, con seggi storici dei Tory che potrebbero diventare rossi – il magazine conservatore Spectator ha titolato: “Red London”, è nella capitale che ci si aspetta il risultato migliore. Jeremy Corbyn gode di grande popolarità, nel Regno e anche nel resto del mondo, il suo volto è sbucato persino su qualche maglietta degli studenti che protestano in Francia, che sono a corto di testimonial e con il berretto di Che Guevara fanno un po’ ridere. Il rivoluzionario tranquillo, che non porta più il borsello ma continua ad avere l’aria di chi ce l’ha a tracolla, ha dato una ragione d’essere alla sinistra, e gli elettori e i commentatori della vecchia guardia, la guardia moderata, la guardia d’ispirazione blairiana, osservano attoniti: quel che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo lo chiama farfalla.
Il bruco è diventato farfalla e i moderati si sono ritrovati nel bozzolo in cui si soffoca, mentre il Labour corbyniano vola
Chi intossica l’ortodossia del Labour? Stando alle ricostruzioni dei corbyniani, i moderati sembrano una fabbrica di troll
Che cosa succede però quando il tuo partito si trasforma radicalmente, diventa un’altra cosa, forse quel che già era stato, ma non importa: siamo qui e oggi? Molti laburisti di area bruco dicono, nelle chiacchiere in privato, che sta diventando sempre più difficile votare il proprio partito, perché la sua visione del mondo non assomiglia più alla loro. Che si fa allora, si vota i Tory? Impossibile, dicono. Ci deve essere qualche diavolo in questo dettaglio: siamo nella stagione della post politica, oltre le destre oltre le sinistre, si ragiona con altre categorie, aperto-chiuso, giovani-anziani, città-campagne, la politica fluida come si dice, e poi scopriamo che la famiglia conta, l’appartenenza conta, anche quando si litiga moltissimo. E’ un dettaglio che pure noi, in Italia, stiamo imparando a mettere a fuoco, ora che siamo costretti a fidarci di promesse indefinite, a dialoghi che mai ti saresti immaginato, che mai hai voluto, come quando inviti i consuoceri alla cena di Natale e ti ritrovi a pensare che era più bello bisticciare per conto proprio, senza estranei.
Nel Regno Unito che cerca direzione ed equilibrio ora che ha deciso di uscire dal gruppo europeo, ha vinto la “nastiness”, il morbo che aveva colto i conservatori durante la stagione blairiana – non vincevano mai mentre il Labour risucchiava zone elettorali come Mario Bros con le monete stella – e che ora è un po’ ovunque, un reality show sul regolamento di conti, o sul cannibalismo, dipende dalla reazione di ognuno di noi alla vista del sangue. Lo spettacolo è brutale, ma se dalle parti dei Tory non si vede un vincitore, o cambia spesso, da quelle del Labour non ci sono dubbi: Corbyn, il leader che nessuno s’aspettava, ha fatto ordine, ha levato le sfumature, chi non sta con me è contro di me. Ci interroghiamo spesso su come si riformano e rinnovano i partiti da dentro, come si coltivano idee e leader – e altrettanto spesso ci rispondiamo: non si può, mulini a vento – e poi arriva un boss alla vecchia maniera, autoritario e deciso, e diventa un modello da imitare: guarda Corbyn come va bene.
In questi giorni i commentatori inglesi sono andati a riprendere le analisi e le copertine dei giornali di un anno fa, quando la premier, Theresa May, aveva indetto le elezioni anticipate per l’8 giugno scorso, unico gesto di coraggio del suo mandato sincopato: non c’è bisogno di leggere, basta guardare. Era tutto blu, blu Tory, blu “One Nation”, blu “Brexit globale”, blu cielo dei giorni in cui ogni cosa sembra possibile. La May aveva preso la sua decisione sulla base di numeri e previsioni: i conservatori avevano circa il 20 per cento di vantaggio sul Labour, che era alle prese con i suoi tentati golpe interni che non funzionano mai, e il coraggio sfumava deciso verso il bullismo. Sappiamo come è andata a finire, e non vale nemmeno la pena di prendersela con i sondaggisti che non ne azzeccano una. I Tory si sono divisi, hanno continuato il reality “nasty”, ma il Labour non solo ne ha approfittato, è riuscito persino a darsi un’identità, un rosso profondo, un leader, una prospettiva connotata senza perdersi troppo l’elettorato moderato, che pure in Corbyn non intravvede alcun segno di appartenenza. Il Labour non vinse – la teoria della vittoria morale non è mai stata convincente – ma fece girare il vento, e per tutto quest’anno se l'è fatto bastare, il vento a suo favore. Sulla Brexit non ha ancora proposto un’alternativa al governo o un’idea operativa fattibile, ma sembra più affidabile dei Tory. Sulle case e gli affitti, flagello di questa elezione soprattutto a Londra – se sentite parlare della “generation rent” è questo il motivo: i giovani non riescono più a comprare una casa, e una volta lo facevano – il Labour propone soluzioni che non hanno né coperture né futuro, una toppa cucita male che non copre il buco, eppure sembra più affidabile dei Tory. Sulla politica estera siamo alle mani nei capelli: l’atlantismo storico del Regno Unito intero, non di destra o di sinistra, è stato ribaltato a favore di un avvicinamento alla Russia (e ai suoi amici) e a una presa di distanza dalla Nato. E non c’entra Donald Trump: il fatto che il presidente americano stia innescando reazioni schizofreniche tra gli alleati non è determinante. Il corbynismo nasce anti americano prima ancora di diventare tanto popolare: Stop the War, il gruppo di attivisti cosiddetti pacifisti di cui Corbyn è stato membro e presidente, non ha mai organizzato una manifestazione contro la Russia che invade l’Ucraina e se ne torna a casa con la Crimea sotto braccio, né contro la Russia che bombarda ospedali e convogli umanitari in Siria, decine di civili uccisi. Però la settimana scorsa, quando si dibatteva in Parlamento del blitz inglese, americano e francese contro i siti delle armi chimiche gestiti dal regime di Damasco (un’operazione durata un’ora, zero morti, un ferito), ecco che Stop the War era lì, in piazza, a protestare. Sull’antisemitismo il copione è simile: qualche laburista epurato (con contestuali appelli per il reintegro), qualche editoriale sui quotidiani, molti “faremo”, “non permetteremo” e poi un sostanziale menefreghismo. Bisogna credere ai valori per difenderli con convinzione, altrimenti ci si accontenta del trucco: quando poi cola, lo ritocchiamo.
Alle elezioni amministrative della prossima settimana, la sinistra punta a un bottino clamoroso, soprattutto a Londra
Che cosa si può fare quando si sta tanto scomodi nel proprio partito? L’ipotesi della fuga ha un passato fallimentare
Per le elezioni di giovedì prossimo i Tory sono preoccupatissimi: sono delle amministrative, ma ogni test è esplicativo, per quanto nel maggio dello scorso anno, a un mese dalle elezioni politiche, il Labour andò maluccio, ma ce lo dimenticammo in fretta. Londra è il bottino grosso, tutti i 32 consigli della capitale sono in campagna elettorale, e le certezze del passato vacillano: i gioielli dei conservatori, quei codici postali in cui i laburisti non si prendono la briga di lasciare volantini, carta straccia (in particolare Westminster, Kensington, Chelsea e Wandsworth), rischiano di essere rubati dal Labour. E’ un rischio, non una sicurezza, l’ultima rillevazione YouGov dice che nella capitale i laburisti sono al 51 per cento e i Tory al 29, non abbastanza per prendere, per esempio, Wandsworth e Westminster dove in questi giorni si concentra l’offensiva corbyniana. Stiamo parlando di zone che non furono colpite neppure dalla valanga blairiana del 1997, ma soltanto l’idea di tentata rapina terrorizza i Tory. I quali stanno cercando in ogni modo di difendersi: c’è chi ha pensato addirittura di staccare formalmente i Tory di Londra dal resto del partito e diventare un’entità separata, con un logo e un leader proprio, sul modello dei conservatori scozzesi sotto la guida di Ruth Davidson. Gli esponenti e i candidati londinesi erano tutti d’accordo, ma la leadership conservatrice ha bocciato la proposta: dicono che Theresa May è un’accentratrice, ma forse sta tentando soltanto di non mettere il timbro sul disamore nei suoi confronti. i Tory londinesi si sono allora rivolti alla stessa Davidson, che ha fatto resuscitare i conservatori in una Scozia che è stata a lungo una “no-go area” per il blu, chiedendole di mandare qualche suo esperto in aiuto. La risposta è stata gentile ma ferma: no, perché il segreto del successo della Davidson non è stata soltanto una bella campagna, ma soprattutto un lungo lavoro per capire da dove ripartire: Londra non ha nemmeno cominciato. Così è rimasto soltanto il terrore, in una città che non può restare del tutto al riparo dal dibattito a livello nazionale anche se elegge consiglieri locali: qui la Brexit non la vuole nessuno, i ghirigori di Downing Street e di Westminster sul negoziato qui appaiono come diagrammi che vanno verso il basso, l’uscita dall’Ue è perdita secca di potere, denari, centralità. L’unica salvezza, in assenza di una guida politica, pare risiedere ancora una volta nelle famiglie e nell’appartenenza. Si litiga sull’uscita dall’Ue ma non si scappa: il temuto “brexodus” non c’è stato, non ancora almeno, perché le mogli di finanzieri e banchieri non hanno alcuna intenzione di lasciare Londra per andare in qualche città grigia, in particolare Francoforte che, nei blog delle cosiddette “yummy mummies”, è descritta come un angolo sperduto della tundra.
Nell’ascesa del Labour però l’ambiguità sulla Brexit non sembra avere un gran peso. Anche se Corbyn è chiaramente euroscettico, non si strugge all’idea della solitudine e continua a tenere in sospeso gli anti Brexit e la loro richiesta di organizzare un nuovo referendum sull’esito del negoziato con Bruxelles, il Labour resta il rifugio di chi spera di invertire il corso del divorzio. Di qualcuno bisognerà pure fidarsi, anche se il momento della conta, con me o contro di me, pare imminenti. L’ultimo numero del magazine NewStatesman ha un titolo inequivocabile: “The Corbyn Ultimatum”, e a lanciarlo è il padrone dei sindacati, Len McCluskey, artefice del consolidamento della leadership corbyniana come già fu decisivo nella nomina di Ed Miliband (che perse alle elezioni del 2015). I parlamentari ribelli devono sostenere il loro leader, altrimenti dovranno pagare il prezzo della dissidenza, dice McCluskey, denunciando la campagna denigratoria organizzata dai ribelli – leggi: i moderati – contro Corbyn. Secondo il supersindacalista, i traditori cercano pretesti anche stupidi, anzi sempre stupidi, per sminuire l’operato del leader, ogni giorno si svegliano con un unico pensiero: “Che cosa posso inventarmi oggi per parlar male di Corbyn?”. Molti corbyniani sono scatenati sul tema, vanno in tv a dire che la copertura mediatica del Labour non è equanime, e che è faticoso fare politica e opposizione al governo con tanti ostacoli interni: stando a queste ricostruzioni, l’ala moderata del partito sembra una fabbrica di troll di stampo russo, “come si permettono di intossicare il Partito laburista, che è stato la voce e la speranza di milioni di lavoratori ordinari per generazioni, inclusi i circa 13 milioni che hanno votato per Corbyn nel 2017?”.
La ricomposizione diventa difficile, la fuga pure. In “Ten years in the death of the Labour party”, Tom Harris, blairiano orgoglioso, scrive un necrologio lungo dieci anni e ricorda che questo momento esatto, la resa dei conti, ci fu anche nel 1981, seguito da una scissione: i fuoriusciti crearono un altro partito, che non andò bene e che finì soltanto per dividere il fronte anti conservatore agevolando l’ascesa di Margaret Thatcher. L’esperienza fallimentare viene citata ancora oggi come prova dell’impossibilità di fuga: un terzo partito sarebbe un suicidio. Eppure Harris è convinto che questo Labour non sia vivo, non è una farfalla che vola, è “il Nosferatu della politica inglese”, un vampiro che dorme nelle bare della peste nera. Il momento in cui il partito punta in alto perché sa che potrebbe arrivarci è quello in cui molti altri, fratelli e compagni, vedono attorno soltanto la morte, rose sfiorite, il bruco che soffoca. Quando ti chiedi che cosa vuoi essere domani, in che sinistra vorresti immedesimarti, non resta che rischiare l’antidoto a Nosferatu, l’unico modo per poter tornare a essere vivi per davvero: la luce del sole.