Un altro matrimonio a Palazzo
Il 19 maggio Harry, nipote di Elisabetta II, sposerà Meghan Markle, cenerentola americana di sicuro fascino e comprovato talento. Il ricordo di Diana e la monarchia più antica e spregiudicata del mondo
A Londra, malgrado la Brexit, monarchia e tradizione si rinnovano assecondando il vento dell’ultracontemporaneità. Dopo aver presenziato in prima fila a una sfilata dell’ultima Settimana della moda, la regina Elisabetta ha festeggiato i suoi 92 anni al Royal Albert Hall con un mega concerto di star internazionali del calibro di Shaggy, il giamaicano scapigliato che ha cantato il suo inno reggae “Bombastic”, del menestrello anglo-senese Sing, che non sognava altro che esibirsi di fronte a Sua Maestà, e dell’australiana Kylie Minogue in rappresentanza degli artisti del Commonwealth. Non paga di tanta felicità canora, comprensiva di alcuni motivi della sua giovinezza riesumati dalla hit parade degli anni Quaranta e Cinquanta, alla fine del concerto trasmesso in diretta dalla Bbc, Elisabetta II è salita sul palcoscenico per assistere al triplo hip hip urrà lanciato dal figlio settantenne Carlo, erede al trono un po’ vanesio, e con ironia very British ha alzato gli occhi al cielo quando quest’ultimo l’ha chiamata “Mammina”. Due giorni dopo, al Saint Mary’s Hospital di Londra è nato il terzo figlio di William e Kate, Louis, e le redazioni di tutto il mondo sono rimaste per ore col fiato sospeso, prima di assistere in diretta alla presentazione del pargolo da parte dei genitori, raggianti sul portone dell’ospedale davanti a una muta di fotografi asserragliati lì sin dall’alba: William è comparso in giacca sportiva e senza cravatta; Kate, in perfetta forma a sei ore dal parto, con trucco impeccabile, abitino rosso con colletto ricamato, e tacco 10. Perfetta immagine ordinaria di una famigliola fuori dall’ordinario che rappresenta un regno, un popolo (anche se per il terzo figlio hanno scelto un nome dei Capetingi), una nazione universale. Adesso, dovremo pazientare ancora tre settimane per assistere in diretta streaming alle nozze di Harry & Meghan, ultimo rito della monarchia più antica e spregiudicata del mondo, passibile di suscitare un interesse planetario.
Eh sì, perché Sua Altezza Reale il principe Harry, trentatreenne figlio di Carlo e nipote di Elisabetta II, ormai sesto nella linea di successione al trono, il 19 maggio convolerà in pompa magna nella cappella del castello di Windsor con un’americana di trentasei anni, divorziata da un produttore in disarmo, già attrice in proprio, protagonista di una fortunata serie tv prodotta in Canada, blogger di successo, militante per i diritti umani, femminista convinta e orgogliosa delle sue origini modeste, figlia di un direttore delle luci di Hollywood e di una truccatrice di colore che ha conosciuto di persona l’umiliazione della marginalità sociale e della discriminazione razziale.
La regina ha da poco festeggiato i 92 anni. William e Kate hanno appena presentato al mondo, raggianti, il loro terzo figlio
Difficile immaginare un lieto fine più toccante per la favola triste di Diana Spencer, madre di William e Harry, moglie bulimica di un uomo che l’ha sempre tradita, morta vent’anni fa a Parigi in un incidente d’auto sotto il tunnel dell’Alma, fra le braccia del suo amante musulmano. L’eredità di Diana, la figlia dell’alta aristocrazia diventata col divorzio un’icona planetaria della cultura pop, amica di stilisti incandescenti come Gianni Versace, di rock star libertarie come Elton John, la principessa triste, ribelle alla corte dei Windsor e alla sua ipocrisia, continua a vivere attraverso i suoi figli, rimasti orfani in tenera età e da allora a lei devotissimi. Diana infatti respira ancora, col suo gusto per la vita genuina, nel rassicurante matrimonio del primogenito, accasato da anni col primo amore, la bella commoner Catherine Middleton, intercettata all’Università di Saint Andrews. Ma il suo ricordo oggi continua a vivere soprattutto nell’idillio hollywoodiano tra il secondogenito Harry e Rachel Meghan Markle, la cenerentola afroamericana di sicuro fascino e comprovato talento.
Alla vigilia del suo primo appuntamento alla cieca con Harry, organizzato a Londra, a fine giugno 2016, dall’addetta alle pubbliche relazioni di Ralph Lauren, Violet von Westenholz, figlia di un amico del principe Carlo e intima di William e Harry, un intenditore come Piers Morgan, ex direttore del Daily Mirror e star televisiva, ha incontrato Meghan Markle per un Martini in un pub di Kensington. “She looked every inch the Hollywood superstar – very slim, very leggy, very elegant and impossibly glamourous. Or, as the landlord put it, a stunner”. (“Aveva l’aspetto di una superstar di Hollywood – esilissima, tutta gambe, elegantissima, tremendamente affascinante. O per dirla col proprietario del pub, ‘uno schianto’”), ha confessato a Andrew Morton (fresco autore di un’agiografia ricca di aneddoti, Meghan. A Hollywood Princess, Michael O’Mara Books Ltd, 20 sterline, dopo il libro verità su Diana, il racconto del matrimonio di William e Kate e la biografia della duchessa di Windsor, alias l’americana Wallis Simpson, due volte divorziata, per la quale 80 anni fa Edoardo VII rinunciò al trono, aprendo la strada alla successione della nipote Elisabetta).
La promessa sposa di Harry, in realtà, è molto più di uno schianto. E’ il prodotto compiuto dell’emancipazione femminile, l’incarnazione sofisticata dell’unica distinzione legittima in un’epoca democratica fondata sull’eguaglianza e le pari opportunità. E’ una star di media grandezza che dopo un discreto successo abbandona il set di una serie televisiva per vivere in prima persona un ruolo unico e straordinario, nel solco dell’impegno umanitario di Diana, esempio di stile al quale pare che voti sin da adolescente un culto esclusivo, modello di vita che è riuscita persino a superare grazie alla frequentazione di buone scuole, a una formazione eccellente e a un’autostima a prova di bomba.
Meghan, 36 anni, già attrice protagonista di una fortunata serie tv, blogger di successo, femminista e militante per i diritti umani
Frutto della passione effimera di una coppia disfunzionale del sottobosco hollywoodiano, che si separa quando lei ha due anni – padre adorante, altissimo, capelli rossi, già un divorzio alle spalle con due figli a carico e molta fantasia, tecnico delle luci di una serie tv premiatissima come “General Hospital”, madre afroamericana e truccatrice, scambiata subito per la babysitter di casa e perseguitata dai figli di primo letto di lui, prima di darsela a gambe levate e abbandonare il talamo – Meghan è cresciuta a Los Angeles.
Sin dall’asilo ha frequentato una scuola cattolica d’élite, e sin da piccola ha mostrato un precocissimo attivismo democratico: a 11 anni scrive alla Procter & Gamble una letterina di protesta contro la pubblicità sessista di un detersivo (“Women all over America are fighting greasy pots and pans”, “Le donne combattono in tutta l’America con pentole e padelle unte” ). Come risposta non ottiene che un paio di lettere di sostegno dalla first lady Hillary Clinton e da un’avvocatessa militante femminista, ma pochi mesi dopo la multinazionale cambia lo slogan, sostituendo il termine “Women” con il più politicamente corretto “People”.
La principessa triste respira ancora nel rassicurante connubio del primogenito e ora nell’idillio hollywoodiano del secondo
Cresciuta sul set, frequentato quotidianamente durante l’affidamento al padre adorante, Meghan, detta Flower, è stata educata alla disciplina delle riprese continue, ha imparato la legge spietata del regno della tecnica, dove basta un piccolo sgarbo verso un operatore per farti apparire un mostro e una carezza per trasformarti in una dea. Ed è sempre stata una star molto consapevole e impegnata. Laureata a Chicago alla Northwestern University in Teatro e Relazioni internazionali, a vent’anni, grazie allo zio Markle funzionario della Cia, è entrata da stagista all’ambasciata americana di Buenos Aires. Dopo lo smacco nel concorso di ammissione al Dipartimento di stato, è approdata allo showbiz, dove era di casa e dove, dopo anni di gavetta e comparsate come valletta dei quiz televisivi, è riuscita a strappare il ruolo di protagonista di una serie destinata a grande successo, “Suits”, il legal drama creato da Aaron Korsch sui machiavellici giochi di potere di Pearson & Hardman, grande studio legale newyorkese diretto da una meravigliosa Gina Torres, alias Jessica Pearson, e in balia delle passioni dei soci. Meghan è Rachel Zane, una giovane assistente di studio, molto esperta nelle ricerche di archivio e stimatissima, al punto da avere un ufficio tutto suo con piantine e vista sui grattacieli, a differenza dei giovani associati costretti a lavorare nei cubicoli dell’open space. Paralegal tiratissima, sempre in tacco 12 e gonne attillate, Meghan-Rachel per quanto determinata nell’ansia di autonomia dalla famiglia di origine, well loaded, e cioè abbiente, è però una ragazza vulnerabile: incapace di superare l’esame di avvocato, finirà per innamorarsi dell’assistente di uno dei senior partner della Pearson & Hardman, il geniale Mike Ross (nella vita Patrick J. Adams), alter ego del suo capo Harvey Specter, e però millantatore di una laurea a Harvard mai conseguita, finché un incidente di percorso non manderà il connubio per aria.
La promessa sposa di Harry nel solco dell’impegno umanitario di Diana, esempio di stile al quale pare che voti un culto esclusivo
Forte del successo di una serie arrivata all’ottava stagione, conosciuta dagli avvocati dell’intero globo terracqueo, Meghan Markle, essendo perfezionista di suo, propulsa da un motorino interno sempre acceso verso il miglioramento di sé, che per la democrazia in America è il vero nome dell’ambizione, si è lanciata subito in un’attività promozionale nel mondo del food & fashion, come testimonial di marchi dell’alta moda, ma anche come stilista per un marchio popolare della grande distribuzione, e alla fine è riuscita a traghettare dalla frivolezza del marketing alle cause umanitarie.
Il passaggio è avvenuto grazie a un blog concepito e lanciato con dovizia di riflessione dalla giovane star della tv patita di computer e in cerca di nuove esperienze, e chiuso all’indomani del fidanzamento con Harry. Www.TheTig, abbreviazione per Tignanello, era un blog dedicato al lusso, ai viaggi, al bello e alle giuste cause, che in pochi mesi ha raccolto una marea di contatti e inserzioni pubblicitarie. Ma la svolta per Meghan è arrivata il giorno in cui ha scritto un famoso post ultrafemminista per festeggiare l’Independence Day: “Brinda a te stessa, al diritto di essere libera, al potere delle donne che lottano per ottenere potere, brinda a te stessa per conoscerti, onorarti, educarti e rispettarti, celebra la tua indipendenza”. Seguivano le riflessioni di Chimamanda Ngzi Adichie, pluripremiata scrittrice nigeriana (Commonwealth Writers’ Prize con L’ibisco viola, dell’Orange Broad Prize e Premio Nonino per Metà di un sole giallo, National Book Critics Award per Americanah) considerata da Time Magazine una delle 100 persone più influenti del mondo nel 2014.
Il re non muore mai, perché è dotato di una doppia natura: ha un corpo fisico, soggetto alla passione e alla morte, e un altro collettivo, perfetto e immortale
Subito intercettata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, Meghan Markle è stata coinvolta nella campagna di HeforShe, programma in difesa dell’eguaglianza di genere. E’ così che la bella paralegal di “Suits”, l’attrice sensibile che, bianca in un mondo di neri e nera in un mondo di bianchi, ha sempre coltivato un suo punto di vista ubiquo, sulla realtà, è approdata al jet set dell’internazionale umanitaria. Invitata al forum internazionale per i leader del futuro, a Dublino parla a braccio davanti alla presidente irlandese Mary Robinson, al produttore Bob Geldof e all’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, sorprendendo tutti per il calore umano e la conoscenza dei problemi. Dividendosi tra l’impegno umanitario e un passaggio col suo amore del momento, il cuoco e star tv Cory Vitiello, all’Art Basel di Miami, stringe amicizia con Misha Nonoo, stilista nata in Bahrain e moglie di un mercante d’arte amico di William e Harry. Intanto continua a scrivere il suo blog e a postare foto sul suo profilo Instagram, e s’imbarca con altre celebrities sull’Air Force Two per l’United Service Organization Holiday Tour, missione in cinque paesi fra i soldati della base Nato di Vicenza e i contrattisti delle base aerea di Bagram in Afghanistan. Un bel giorno, con le Nazioni Unite, approda a Kigali in Ruanda, primo e unico paese ad avere una maggioranza femminile in parlamento. Attraversa su un furgoncino tutto il paese fino al campo di rifugiati di Gihembe, che accoglie i profughi congolesi, e vive un tale choc che si rifiuta di partecipare come testimonial di certi gioielli di extralusso alla serata di gala dei Bafta, incapace di cambiare passo per catapultarsi in 24 ore da un campo di rifugiati africani alle passerelle degli Oscar del cinema inglesi. “Questo tipo di lavoro mi nutre l’anima” scriverà nel suo blog la star di “Suits”, ormai paladina internazionale delle missioni umanitarie.
A ben guardare, dunque, le nozze di Harry & Meghan rappresentano la perfetta rivincita di Diana, che ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a campagne umanitarie altamente mediatiche. Ma le prossime nozze reali segnano soprattutto il sogno realizzato dell’unica legittima grandezza nell’èra dell’eguaglianza, quella legata al talento e all’impegno individuale, che trova espressione ora su un campo sportivo, ora sul palco di un concerto rock, ora sul set cinematografico o su quello di una sfilata, e comunque sempre sotto la luce dei riflettori, offrendo l’unica strada maestra per attingere la gloria e la fama universale in un’epoca che ha decretato la messa al bando di privilegi e distinzioni, salvo recuperarli in vista di un fine superiore e in nome della nuova religione umanitaria.
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Niente monarchia senza distinzioni, spiega Montesquieu nell’Esprit des Lois. Niente monarchia senza onore, che ne è il principio, così come la virtù è il principio della repubblica e la paura è il principio del dispotismo. Ma se l’onore è il principio della monarchia, le leggi devono sostenere la nobiltà che dell’onore è figlia, e l’ereditarietà che la rende possibile. Mentre la democrazia, che ha per principio la virtù (corrispondente, secondo Montesquieu – cfr. Esprit des Lois, V, 2 – all’amore di patria il quale genera i buoni costumi, come la passione dei monaci per il loro ordine, passione esclusiva, perché la regola di clausura, privando i monaci di tutte quelle cose su cui poggiano le passioni ordinarie, non lascia loro che la passione per quella stessa regola che li affligge), la democrazia produce l’amore della frugalità e dell’eguaglianza, limitando l’ambizione al solo desiderio di servire la patria.
Allora forse è proprio un mix di questi due principi a spiegare la popolarità della monarchia inglese e la sua paradossale sopravvivenza nell’epoca della democrazia. Il fatto è che nonostante tutti i pronostici di lento e inarrestabile declino, la monarchia continua non solo a vivere ma a irradiare la sua luce favolosa oltre i confini nazionali, conquistando l’attenzione di miliardi di persone, sino a colonizzare l’immaginario di quanti, in ogni parte del mondo, si abbeverano quotidianamente di immagini, filmati e notizie dei Royals, come se fossero persone di famiglia, parenti prossimi, amici del cuore…
In tutto questo c’è qualcosa di strano, se l’entusiasmo planetario sembra circondare la famiglia reale inglese. E chi tenta di spiegare il fenomeno in nome dell’interesse materiale o del realismo, rischia di andare fuori strada come Simonetta Agnello Hornby, la siciliana trapiantata a Londra per fare l’avvocato e diventata autrice di bestseller. La figlia del barone Agnello si è convertita alla narrativa con una favola arcaica e boccaccesca su una raccoglitrice di mandorle, eppure ora senza alcuna fantasia scommette sulla morte della monarchia. E’ convinta che venire al mondo per essere condannati a fare la stessa vita dei propri padri sia una iattura, un’ingiustizia insopportabile e per questo destinata a morire. Ma ridurre alla sola legge dell’ereditarietà e a un lavoro malsano un’istituzione millenaria come la regalità, che ha resistito a guerre, rivoluzioni, trasformazioni dei costumi, dando per scontato la “fine dell’incantesimo”, equivale a dare un giudizio sommario, vuol dire arrendersi in modo troppo sbrigativo oltreché miope alle false conseguenze di una premessa sbagliata. “E’ giusto che l’incantesimo si rompa” insiste la scrittrice anglo-siciliana quando dichiara “non vedo più il vantaggio della monarchia”, e per dimostrarlo punta il dito sui turisti sempre più invecchiati e scadenti e sul reality show che ormai ai suoi occhi è diventata la monarchia inglese.
Ma in questo modo, si resta sulla superficie del cose, indifferenti al fenomeno, insensibili al mistero della regalità e alla ragione profonda che spiega il rigoglio della monarchia e la sua capacità di sfidare un’epoca ad essa antifrastica come la nostra. Il fatto è che per avere un’idea meno approssimativa non bastano le pandette e le favole siciliane, bisogna avere chiaro un passaggio chiave nella storia d’Europa e delle sue rappresentazioni del potere, un passaggio che fu all’origine degli stati nazione, come ha spiegato il grande storico tedesco Ernst Kantorowicz nel suo capolavoro americano The King’s Two Bodies (1957). Si tratta del passaggio che ha permesso alle moderne monarchie nazionali, di Francia e Inghilterra, di prendere a modello la costruzione giuridica su cui la chiesa di Roma aveva fondato la monarchia pontificia di Bonificio VIII, per riformulare a proprio vantaggio la fictio iuris, caposaldo del diritto canonico e della teoria dei glossatori, di un re che regna al di là della sua persona fisica, di un re che vive senza mai morire, perché sussume in sé il corpo collettivo del regno, eguagliando in sacralità la potenza simbolica e politica della Chiesa di Roma.
E’ così che in questo scorcio del XXI secolo, dietro un re che regna senza governare, anzi dietro una regina che si lancia da un elicottero per inaugurare le Olimpiadi e a 90 anni passa due ore seduta a teatro, fra figli, nuore e nipoti, per assistere a un concerto rock, continua a pulsare il mistero dell’incarnazione monarchica, “la saggezza di un grande popolo incarnata nella testa di un imbecille”, come scriveva Jules Michelet a proposito della morte del re, in un capitolo della Storia della Rivoluzione francese. Il mistero dell’incarnazione monarchica affonda le radici niente di meno che nel dogma cristologico della doppia natura di Cristo, umano e divino, particolare e universale, dogma riadattato dai giuristi del Rinascimento alla doppia natura del re che non muore mai, perché dotato anche lui di una doppia natura e di due corpi, uno fisico, soggetto al dolore, alla passione e alla morte come quello di ogni singola creatura umana, e un altro collettivo, perfetto e immortale, in quanto detentore di una dignitas universale, in cui si sussume il corpo collettivo del regno. E’ questo piccolo particolare a spiegare come mai la monarchica col suo mistero dell’incarnazione continui paradossalmente a vivere in un tempo che le è ostile come il nostro, e vive di una vita nuova e tutta sua, nonostante la secolarizzazione, la fine del cristianesimo, la morte dell’aristocrazia, per non parlare dell’onore e della gloria, ormai svaniti dal nostro orizzonte democratico e egualitario.
Dunque è da qui, dal mistero dell’incarnazione monarchica al cuore della rappresentazione simbolica del potere negli storia degli stati occidentali, e non dal piatto tornaconto materiale che bisogna partire per capire la popolarità della famiglia reale inglese, e il delirio universale che accompagna le gesta dei suoi ultimi esponenti, schierati come un sol uomo sul fronte della religione umanitaria, disposti a investire in proprio e a rischiare di persona per continuare a incarnare, pur nella loro finitezza, una dimensione altra, collettiva, universale e trascendente.
Cose dai nostri schermi