Contestazioni per la presenza Daniela Santanchè all'università di Firenze per parlare di ius soli. Foto LaPresse

Liberi di parlare. Anche nelle università

Paola Peduzzi

Londra introduce nuove regole sulla libertà di parola nei campus. Tra le polemiche si scorge il problema vero

Milano. Nelle università bisogna farsi assalire dalle opinioni degli altri, confrontarsi, discutere, argomentare, contrattaccare: se non impari nel campus a difendere le tue idee, figurati poi, quando sarai fuori da lì, dice il ministro per le Università britannico, Sam Gyimah. Ieri ha organizzato un incontro sulla libertà di parola nei campus universitari, per introdurre una serie di linee guida a tutela del free speech, che vuole, tra le altre cose, togliere la possibilità agli studenti di boicottare ospiti che hanno “opinioni perfettamente legittime”, ancorché diverse dalle loro. Gyimah parla di “ostilità istituzionale”, versione governativa di quello che solitamente chiamiamo pregiudizio, e che ha portato nel tempo a proteste, boicottaggi e dis-inviti di ospiti controversi. “Trovo piuttosto spaventosa una società in cui le persone pensano di avere un diritto legittimo a fermare qualcuno che sta esprimendo la propria idea in un campus semplicemente perché è poco popolare o poco di moda”, ha detto Gyimah, raccontando in un commento sul Times la sua esperienza personale (che parte in modo piuttosto banale dalla celebre frase di Voltaire sulla difesa delle opinioni degli altri), una censura esterna a un suo evento universitario che poi si è trasformata – come spesso accade anche fuori dagli atenei – in autocensura. 

  

“C’è il rischio – ha aggiunto il ministro Gyimah – che un’interpretazione super zelante della varietà di regole ora in vigore finisca per frenare la libertà di parola nei campus”. Al momento, secondo quanto stabilito nel 1986, si possono organizzare proteste contro ospiti non graditi o si può fare in modo che l’ospite in questione si ritrovi senza interlocutori ché nessuno si vuole accompagnare con lui, ma già dallo scorso anno il governo ha fatto sapere che la censura reiterata si sarebbe trasformata in una multa. Il problema della libertà di parola nei campus non è soltanto inglese: anche in America ci sono state polemiche enormi e continue, con ospiti che non sono riusciti a parlare o ai quali è stato consigliato di non presentarsi poiché l’università non era in grado di garantire la sicurezza adeguata. Gli addetti ai lavori – insegnanti, rettori – dicono che la crisi è stata ampiamente esagerata, e che alcune proteste non fanno certo temere per la vivacità dei dibattiti nei campus. Un report pubblicato a marzo ed elaborato dalla commissione per i diritti umani al Parlamento inglese stabilisce: “Ogni inibizione alla libertà di parola è da affrontare in modo serio e ci sono stati alcuni tentativi in questo senso, ma non abbiamo riscontrato quella censura sistemica del dibattito nelle università che i media suggeriscono”. Siamo sempre lì: è la comunicazione in generale ad avere un problema, le idee degli altri, quando diverse, sono percepite come ostili, vale nei media, nei campus, nella politica. Gli insegnanti dicono che non c’è alcuna crisi: per alcuni eventi boicottati se ne sono tenuti migliaia tranquillamente, e quando ci sono state proteste sono state contenute e governate dalle università stesse, ma il ministro Gyimah sostiene che in questo conteggio parzialmente ragionevole non si tiene conto degli eventi che non vengono nemmeno organizzati, per evitare polemiche o addirittura scontri.

  

Secondo l’inchiesta dei parlamentari, gli antiabortisti e i gruppi cristiani sono quelli che hanno più difficoltà a far sentire la propria voce nelle università. Le femministe contrarie all’autoidentificazione dei transgender hanno avuto gli stessi problemi, ed è in corso una polemica su un gruppo di queste femministe che ha dovuto tenere segreto un suo incontro a Oxford: quando si è saputo dell’evento, più di un centinaio di studenti si è radunato per protestare. Gli stessi problemi si riscontrano, non da oggi, quando ci sono incontri sulla questione israelo-palestinese, e da quando è stata votata la Brexit, anche gli esponenti politici a favore del divorzio con l’Europa sono stati boicottati. Sul tema Brexit la frattura è ancora più profonda: con una certa regolarità compaiono sui giornali racconti di studenti ostracizzati dagli insegnanti anti Brexit quando scoprono che gli allievi invece non vedono poi tanto male l’uscita dall’Ue.

  

Le reazioni alla proposta del ministro Gyimah sono lo specchio di questo conflitto: è difficile imporre con delle regole il rispetto per la libertà di parola, soprattutto se al contempo si vieta agli studenti di manifestare il proprio dissenso. “Questa policy è stupida nei suoi stessi termini”, ha tuittato James Ball, autore del libro “Post Truth”, facendo un passo ulteriore: “Chi è a favore di queste politiche vota già per i Tory, perché dobbiamo perdere tempo?”. Ball polemizza ma centra il cuore del problema: la polarizzazione del dibattito culturale è ormai assoluta, anche difendere la libertà di parola è diventato di destra o di sinistra, a seconda di chi osserva, a seconda di chi parla.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi