Muscoli vs giornali: il caso del Phnom Penh Post
Perché la vendita dell’ultimo quotidiano d’opposizione in Cambogia ci riguarda da vicino
Roma. Durante lo scorso fine settimana, il Phnom Penh Post – da ventisei anni uno dei pochi giornali in lingua inglese tra i più liberi e letti della Cambogia – è stato venduto a un investitore della Malaysia, Sivakumar S Ganapathy, molto vicino al primo ministro cambogiano Hun Sen. Ieri la prima pagina del Post è uscita con un lungo fondo firmato da due giornalisti di punta del quotidiano, Brendan O’Byrne e Ananth Baliga, che hanno cercato di ricostruire le fasi della compravendita e i punti più oscuri del passaggio di proprietà. I giornalisti sono stati informati della cessione del vecchio editore, il businessman australiano Bill Clough che aveva il giornale dal 2008, soltanto sabato sera. Secondo l’articolo del Phnom Penh Post, la Asia Pr, la società che ha acquistato il quotidiano, ha stretti legami con il governo cambogiano, e negli anni Novanta era l’editore del Cambodia Times, il giornale più vicino al governo del primo ministro Hun Sen. Kay Kimsong, direttore del Phnom Penh Post, ieri è stato licenziato “per aver approvato la prima pagina”, ha spiegato lui stesso all’Afp. “Ho fatto il mio dovere, anche se il nuovo capo ha tutto il diritto di prendere questa decisione”. Alcuni giornalisti nei ruoli direttivi hanno deciso di licenziarsi, anche i due reporter che hanno firmato l’articolo in prima pagina di ieri e Stuart White, il caporedattore al quale era stato chiesto, secondo quanto riportato dall’Afp, di eliminare l’articolo. In pratica l’intero gruppo dirigente dell’ultima voce della dissidenza cambogiana si è dimesso. Lo scorso settembre il Cambodia Daily, l’altro quotidiano spesso critico nei confronti del governo di Phnom Penh, è stato costretto alla chiusura per via di una multa da più di sei milioni di dollari comminata dallo stesso esecutivo – un metodo utilizzato dal governo per silenziare nel corso del 2017 anche le testate americane Radio Free Asia e Voice of America.
Il Time di questa settimana ha messo in copertina “L’ascesa degli uomini forti”, con i quattro simboli delle leadership contemporanee, fatte di uomini “muscolari, più assertivi”: il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il presidente russo Vladimir Putin, il primo ministro ungherese Viktor Orbán e il presidente filippino Rodrigo Duterte. A ben guardare, però, Duterte non è l’unico leader asiatico che merita di essere inserito nella lista. Hun Sen, sessantacinque anni, è il primo ministro della Cambogia sin dal 1993. Se il dato è sempre stato di per sé eloquente, la democrazia azzoppata di Phnom Penh ha avuto un ruolo cruciale nell’ordine liberale asiatico, dove i progressi economici servono anche ad avvicinarsi lentamente alla democrazia così com’è interpretata dall’occidente. Eppure nell’ultimo anno il leader cambogiano ha cercato di trasformare sempre di più il paese in una “autocrazia personalizzata”, come l’ha definita tempo fa il Financial Times. “Negli ultimi dieci anni, la Cina è cresciuta fino a diventare la più vicina amica e alleata straniera della Cambogia, sostituendo i governi democratici che hanno finanziato la ricostruzione della Cambogia dopo gli accordi di Parigi” del 1991, scriveva ieri sul Nikkei Asian Review Sebastian Strangio. “Tra il 2011 e il 2015 le imprese cinesi hanno investito circa 5 miliardi di dollari tra prestiti e investimenti in Cambogia, quasi sempre ai fini di importanti progetti infrastrutturali, senza chiedere alcunché su come Hun Sen gestisce il paese”. Il primo ministro è legittimato da Pechino, e in vista delle elezioni generali di luglio ha messo il silenziatore pressoché a tutte le voci di dissidenza, con il leader dell’opposizione Kem Sokha ancora in carcere.
All’inizio di maggio il Phnom Penh Post è stato il primo quotidiano a dare la notizia della presa di posizione dell’Unione europea nei confronti della Cambogia. A seguito di un’interrogazione parlamentare, infatti, l’Alto Rappresentante Affari Esteri dell’Ue, Federica Mogherini, ha fatto sapere che Bruxelles sta considerando di rivedere il cosiddetto Sistema di preferenze generalizzato con la Cambogia (il regime doganale preferenziale con i paesi in via di sviluppo) e ha già inviato una missione “dedicata” a Phnom Penh, per verificare “il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali che danno base legale ai nostri scambi commerciali”. Nel marzo del 2016 un altro scoop del Phnom Penh Post aveva messo in luce per la prima volta l’uso spregiudicato dei social network da parte di alcuni “leader forti” asiatici: il quotidiano aveva scoperto che il “like” nella pagina Facebook di Hun Sen erano ben superiori al numero di utenti cambogiani attivi su Facebook, e che la maggior parte di quegli utenti venivano dalle “fabbriche di click”.