Il silenzio dell'Arabia Saudita su Gaza
Su iniziativa di Riad molti stati arabi stanno cambiando toni con Israele. Il nemico comune
Milano. Le condanne sono arrivate in varie forme e con intensità diversa da tutto il mondo: Turchia e Sudafrica hanno richiamato i loro ambasciatori, il Belgio ha convocato quello israeliano per lamentarsi dell’uso eccessivo della forza. Lunedì oltre 60 palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano lungo la barriera che separa Gaza da Israele – il più alto numero di morti dalla guerra nella Striscia del 2014 – mentre a pochi chilometri di distanza, a Gerusalemme, i leader politici israeliani e una delegazione americana celebravano il controverso trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv. Molti paesi arabi, per anni campioni della causa palestinese, hanno pubblicato note e comunicati simili nei toni e nella forma a quelli europei: estremamente formali. Più che l’indignazione delle cancellerie questi testi rivelano quanto i palestinesi siano sempre più isolati in una regione in cui gli alleati di sempre hanno altre priorità: arginare l’espansionismo dell’Iran, ed evitare la possibilità di un’altra “primavera” come quella del 2011.
Tra le nazioni musulmane, la Turchia è stata quella che ha condannato più duramente Israele. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha parlato di “genocidio”, e definito Israele “uno stato terrorista”. Anche il piccolo emirato del Qatar ha preso una posizione più marcata rispetto ai vicini, condannando “il brutale massacro”. Le dichiarazioni più formali in arrivo da Arabia Saudita e dall’alleato egiziano mostrano come per alcuni paesi dell’area la minaccia principale non sia più rappresentata da Israele, ma dall’Iran: una posizione che accomuna il governo israeliano, l’Amministrazione americana e i potentati del Golfo. L’Arabia Saudita ha condannato “l’utilizzo di armi da fuoco da parte delle forze d’occupazione israeliane”, ma non ha fatto alcun cenno al trasferimento dell’ambasciata nella Gerusalemme contesa, dove sorge la moschea di al Aqsa, il terzo luogo sacro per l’islam dopo Mecca e Medina. Lo stesso è avvenuto per i comunicati di Emirati arabi ed Egitto, che assieme a Israele impone su Gaza un embargo da anni, mentre gli Emirati hanno annunciato oltre 5 milioni di dollari di aiuti medici agli ospedali della Striscia.
Il Cairo – la cui relazione con Israele si è rafforzata negli ultimi anni nella cooperazione contro gruppi jihadisti lungo il confine tra i due paesi – nelle ore prima delle manifestazioni ha tentato una mediazione invitando la leadership di Hamas. Tuttavia, anche se un sondaggio di ottobre dell’Arab Center di Washington spiega che per l’88 per cento della piazza araba la questione palestinese resta molto sentita, i rais e principi dei regimi sopravvissuti alle rivolte del 2011 non sembrano intenzionati a sostenere una nuova “Intifada” capace di destabilizzare un’altra area di un medio oriente già tormentato da molte minacce.
Nelle scorse settimane non sono mancati i segnali di come alcuni stati arabi, che non hanno relazioni diplomatiche con Israele, stiano cambiando atteggiamento a causa dell’interesse comune. L’Arabia Saudita, che ha applaudito la settimana scorsa l’uscita dell’America dal patto nucleare con l’Iran, vede in Israele l’unica potenza militare regionale in grado di arginare l’espansionismo di Teheran. Durante il suo recente viaggio negli Stati Uniti, in un’intervista all’Atlantic, il principe ereditario Mohammed bin Salman, dopo aver detto che la Guida suprema iraniana Ali Khamenei “fa sembrare Hitler buono”, ha spiegato come sia israeliani sia palestinesi abbiano diritto a un loro stato: una dichiarazione inedita per un leader saudita, futuro sovrano. E, in un’altra prima regionale, dopo il recente lancio di razzi iraniani dalla Siria contro una base militare in Israele, e la conseguente risposta israeliana, il Bahrein ha dichiarato che Israele ha il diritto di difendersi.
L’isolamento dagli alleati di sempre è accentuato dalla divisione della leadership palestinese, Hamas a Gaza e Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, a Ramallah. In Cisgiordania, benché martedì fosse stato indetto uno sciopero generale per marcare il giorno della “nakba”, catastrofe in arabo (i palestinesi ricordano l’allontanamento forzato di 700 mila persone dai loro villaggi nella guerra del 1948) ci sono state proteste e scontri, ma limitati. Anche a Gaza, dopo la giornata di sangue di lunedì, le violenze lungo il confine sono diminuite, c’è stato un altro morto, e i funerali delle vittime di ieri.