Facce nuove, donne, minoranze, tisane. Identikit di un democratico
Dalle primarie americane per le elezioni di mid-term emergono alcuni tratti comuni. Da che parte vira la battaglia delle idee
Milano. Siamo nati per vivere questo momento, ha detto Stacey Abrams, festeggiando la vittoria (prevista) alle primarie democratiche per il posto di governatore della Georgia. Quarantaquattro anni, avvocato, scrittrice (con un nom de plume), ex leader della Camera del parlamento locale, nera, donna, la Abrams potrebbe diventare – se vince le elezioni a novembre – la prima afroamericana governatrice, in uno stato come la Georgia poi, profondissimo sud degli Stati Uniti d’America. Il suo discorso della vittoria è stato trasmesso e ritrasmesso dalle emittenti locali nazionali, le elezioni di metà mandato di novembre sono un modo per mettersi sotto i riflettori, sperando di tenerli accesi fino a quando si dovrà scegliere un candidato che sfida Donald Trump nel 2020, e poi, ancora più in là, chi verrà dopo di lui. La Abrams è il prototipo – scrive il Washington Post – del candidato ideale che il Partito democratico vuole costruire prima per riprendersi la Camera e alcuni stati, poi per spodestare il presidente dalla Casa Bianca: “Non politici, donne, veterani, non bianchi”, questo è l’identikit che i democratici stanno cercando di tracciare durante le primarie, per mostrarsi fedeli all’America che cambia, “gli elettori giovani, non sposati, non bianchi”. In Kentucky è stata nominata per un seggio-chiave Amy McGrath, la prima donna dei Marines a guidare un F-18; in Texas, sono state nominate due donne con un passato nell’esercito e nelle forze dell’ordine, lesbiche, una di origini latine e l’altra asiatiche. Questo per quel che riguarda le ultime primarie, ma anche negli stati in cui si è già votato, i profili più popolari assomigliano a tale identikit – il fatto femminile è il più evidente e pubblicizzato.
Quanto sia grande l’elettorato cui vuole parlare il Partito democratico a caccia di una identità che vada oltre l’antitrumpismo ancora non si sa, ma la coalizione che si vuole creare è quella di ispirazione obamiana che, secondo molti strateghi democratici, è stata tradita dalla candidatura nel 2016 di Hillary Clinton, troppo establishment, troppo upper class, troppo fredda. Volti nuovi, outsider, storie fresche da raccontare, per uscire dalla battaglia ideologica, e creare una classe dirigente che dia una voce e una rappresentanza all’America che non ha risposto a Trump o non vuole più farlo e che attiri a sé quella che è sempre stata più o meno indifferente: oltre la pura “resistenza”, che è comunque la parola più citata sulle magliette elettorali. Ma le storie personali, avvincenti o no, non riescono a nascondere la questione ideologica che sta alla base della rifondazione del Partito democratico: più centrista o più di sinistra? I giornali la definiscono ancora guerra civile, vittorie come quella della Abrams non servono più di tanto a chiarire da che parte si va, perché lei piace sia a Bernie Sanders sia a Hillary Clinton, e il verdetto finale resta sospeso – anche se tende verso il radicalismo, o come lo ha definito Ross Douthat sul New York Times “full left populism”, una virata secca con hashtag senz’appello: #fulltiltpopulism . Intanto ci si tormenta, attività che nelle sinistre occidentali è quasi esclusiva, va di pari passo con le sconfitte elettorali: i moderati sostengono che per battere il trumpismo sia necessario occupare il centro, il ragionevole centro, che ha bisogno sì di qualche faccia nuova, ma soprattutto di proposte concrete, tra apertura e protezione. Gli altri invece sperano di essere quel che i Tea Parties sono stati per il Partito repubblicano, cioè una forza antiestablishment più radicale, dal basso, attivissima e rumorosa: l’ascesa cominciò proprio alle elezioni di metà mandato con Barack Obama presidente, il momento potrebbe essere quello giusto, e il termine alternativo che è stato coniato è in effetti irresistibile: “Herbal Tea Party”, il partito della tisana.
Dalle piazze ai palazzi