Dammi una gioia
La tentazione di Aznar in Spagna e le destre a caccia di un’identità che non lasci tutti “joyless”
Milano. José María Aznar vuole contribuire alla ricostruzione del centrodestra spagnolo, dopo che Mariano Rajoy ha lasciato la premiership e la guida del Partito popolare scosso da uno scandalo di finanziamenti che ha infine condannato alla rinuncia il premier che era riuscito a resistere di fronte a crisi economiche, sociali, politiche, a due elezioni perse e tre vinte (2011, 2015, 2016) e persino alla questione catalana.
Rajoy aveva preso la guida dei popolari proprio dalle mani di Aznar, nel 2003, eredità difficile da maneggiare, perché Aznar era al potere dal 1996, il regista della grande stagione dei conservatori al governo. Ora proprio Aznar, che si era ritirato dalla politica attiva ma restava un punto di riferimento per i popolari, si candida come salvatore, se avete bisogno io ci sono, e i sopraccigli si sono già alzati, compreso quello di Rajoy che piccato ha replicato: il centrodestra non deve essere ricostruito, “ha 137 seggi in Parlamento, 50 in più del secondo partito, che non è di centrodestra”. Dettagli e faide personali a parte (le successioni non sono mai facili), molti si chiedono: come si fa a rinnovare il Partito popolare, tirarlo fuori dal pantano della corruzione e della opacità, affidandosi a un politico del secolo scorso? Per di più ora che il premier è giovane ed energico (il socialista Pedro Sanchéz) e c’è un altro partito che vuole occupare la zona centrista e liberale a scapito proprio dei popolari (Ciudadanos di Alberto Rivera, che oggi però sembra parecchio sfiorito di fronte al tatticissimo Sánchez).
La ricostruzione del centrodestra riguarda un po’ tutti in Europa, perché se è vero che le sinistre sono molto abbacchiate, pure la definizione di un’identità di destra sta diventando complessa. Si rincorrono le destre più estreme, cercando di fermarsi un po’ prima di arrivare dove vanno loro, o ci si associa al centro, chi si considera moderato e liberale si accomodi pure?
Dalla scelta dipendono molte cose, la capacità di fare opposizione laddove serve, per esempio. In Italia, il primo partito della destra è al governo con gli ex detestati Cinque stelle e quel che resta della coalizione cerca una via oltre il berlusconismo. Nella Francia schiantata dal centrismo muscolare di Emmanuel Macron, la destra si è dotata di un leader, ma resta senza pace. I liberali tra i Républicains francesi – in questo momento la più popolare è Valérie Pécresse, presidente del Consiglio regionale dell’Île-de-France – vogliono insidiare la leadership di Laurent Wauquiez, che considerano troppo di destra, troppo alla rincorsa dei temi lepenisti. L’assedio è duplice, al centro Macron con la sua “big tent” né di destra né di sinistra, e poi il mondo che sta a destra, che cambia nome (il Front national ora è il Rassemblement national) e soprattutto riferimenti, con Marion-la-nipotina della famiglia Le Pen che lancia un’iniziativa che riecheggia la “rivoluzione culturale” che va propagandando in Europa il trumpiano Steve Bannon.
Bisognerà scegliere che destra essere, e Macron ha un’idea per farlo in fretta, vorace com’è, tutto d’un colpo: il progetto di costruire un grande gruppo parlamentare a Bruxelles in vista delle elezioni europee della primavera del prossimo anno pone la domanda in modo diretto (vale anche per le sinistre). Dice Macron: voi conservatori europei – compresa la paladina del conservatorismo liberale, la cancelliera tedesca Angela Merkel, che a destra non rincorre nulla, anzi fa da argine alle tentazioni dei suoi stessi compagni di partito – volete stare nello stesso gruppo di un “democratico illiberale” come l’ungherese Viktor Orbán, o spostarvi in un ambiente moderato a mia immagine e somiglianza?
La risposta non è soltanto tattica elettorale, è costruzione di un’identità. I britannici – che con queste famiglie europee non dovranno presto più averci a che fare – si interrogano di continuo: il Regno Unito sta perdendo molto di sé, ma non la capacità di pensare, chissà forse ancora di ispirare. I conservatori sono al governo ma non sono solidi, la Brexit risucchia energie e idee, l’identità dei Tory si divide in molte sfaccettature, liberali pro e contro l’uscita dall’Ue, compassionevoli, protezionisti, globalisti pro e contro la Brexit, isolazionisti. Se a queste divisioni si unisce una leadership – la premier Theresa May – sospettosa, poco apprezzata, con l’aria temporanea anche se si è votato un anno fa, l’ideazione di una proposta conservatrice per il futuro si fa più dura.
Ieri mattina il ministro per l’Ambiente Michael Gove, ala pro Brexit liberale (con fama da cecchino di colleghi), ha tenuto un discorso – “Il giusto ambiente per la crescita”, il testo si trova sul sito del think tank Policy Exchange – su come riformare il capitalismo, i cui benefici sono rimasti in mano a pochi, lasciando tutti gli altri più poveri e più infelici. Un paio di settimane fa, Gove aveva partecipato al lancio di un nuovo think tank – Onward – che vuole traghettare i Tory verso il futuro, con politiche per la crescita, per l’integrazione sociale (dei giovani, i grandi disertori del campo conservatore, e delle minoranze), per l’intelligenza artificiale, per una politica estera meno insulare e più americanocentrica. Non fosse pro Brexit, Gove sarebbe un candidato ideale anche per la sinistra europeista, ma le divisioni vengono prima di ogni tentativo di ricucire e riformare. Ruth Davidson, che ha il merito di aver riportato i Tory in Scozia dove erano quasi scomparsi ed è contraria alla Brexit, era presente assieme a Gove alla serata di Onward – due destre che possono parlarsi, se ritrovano lo spirito giusto. L’analisi più esatta è della Davidson, che parla sempre con toni asciutti e pragmatici ma ha uno sguardo che scava: “Il nostro problema – ha detto – è che siamo senza gioia”. Si riferiva ai conservatori, ma lo sappiamo già che parlava anche di noi.