Trump ottiene poco ma esalta la base nazionalista, dice Bremmer
Il suo popolo “odia più Trudeau di Kim Jong-un” e non si cura degli assist a Pechino e Mosca. Simboli e calcoli di midterm
New York. Ian Bremmer non ha alcuna difficoltà ad ammettere che Donald Trump almeno una medaglietta simbolica da Singapore l’ha portata a casa: “Dopo l’incontro con Kim Jong-un le prospettive di interventi militari in quel quadrante asiatico sono diminuite drasticamente”, dice al Foglio il politologo americano che presiede l’Eurasia Group. Gestire gli attriti internazionali attorno a un tavolo, ancorché inconcludente, è tendenzialmente preferibile. Anche l’elemento simbolico non è del tutto trascurabile, perché “piaccia o no Trump ha portato al tavolo delle trattative il regime più chiuso e ostile agli Stati Uniti del mondo, gesto che ha un valore in sé per l’Amministrazione che ha promesso di risolvere i conflitti con l’arte del deal”. Il problema è che dal punto di vista di Washington le perdite, nella sostanza, superano enormemente le conquiste, almeno se si giudica il summit a partire dagli scopi dichiarati dell’amministrazione. “Trump ha ottenuto promesse vaghe e inverificabili – dice Bremmer – che sono peraltro le stesse offerte alla Corea del sud, impegni di denuclearizzazione già visti e smentiti lanciati senza garanzie e in cambio di un prezzo molto alto, cioè lo stop delle esercitazioni aggravato dalla promessa di ritirare, nel tempo, tutte le truppe americane dalla Corea del sud”. I termini dell’accordo rendono “la Cina il principale vincitore in questo incontro”, esito paradossale per una potenza che qualche mese fa aveva toccato un picco negativo nelle relazioni con Pyongyang ed era nel mirino della guerra commerciale tuonata da Trump e messa in atto dal professor Peter Navarro, il guerriero anticinese che ora invece preferisce passare il suo tempo a mandare all’inferno il primo ministro del Canada (salvo poi scusarsi per l’iperbole). Ora Pechino “ha di fatto ottenuto il freeze-for-freeze che proponeva e ha avuto l’effetto desiderato di mettere una distanza fra l’America e i suoi alleati nella regione, una tecnica di disfacimento dei rapporti già usata anche in altri contesti e che apparentemente piace al presidente”. Mentre Trump volava dai litigi con gli alleati europei del G7 verso il summit delle concessioni a buon mercato alla Corea del nord, Xi Jinping era appunto impegnato in un bilaterale strategico con Vladimir Putin. I primi due punti dell’agenda erano Corea e Iran, i due dossier caldi su cui Trump ha messo al lavoro Mike Pompeo, segretario di stato che, secondo Bremmer, “non ha preparato adeguatamente il meeting, ed è stato fagocitato dall’ego straripante del presidente”. Pompeo, che ora prosegue la sua missione in Corea del sud e in Cina, lungo il percorso che ha portato a Singapore si è scontrato con il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, il falco che da anni parla della linea intransigente (e irrealistica) della denuclearizzazione immediata . La linea diplomatica ha prevalso, ma si è rivelata talmente morbida da servire meglio gli interessi di Pyongyang che quelli di Washington.
Ma l’incontro storico ha anche lo scopo non dichiarato di lisciare il pelo della sua base nel verso giusto, orizzonte fondamentale per il presidente dell’America First che ha sempre lo sguardo rivolto al mercato interno. A novembre ci sono le elezioni di midterm, ed è chiaro che “il suo elettorato odia più Trudeau di Kim Jong-un”, dice Bremmer. E’ una questione di simboli e rappresentazioni: il bisticcio con il premier canadese e l’Europa è la sintesi della guerra contro il politicamente corretto, i tic dei liberal, l’internazionalismo che trasecola nel globalismo; la pace con Kim Jong-un cavalca la storia della smilitarizzazione, suggerisce un qualche tramonto dell’egemonia americana globale, segnala il pacificante disimpegno di una nazione che rinuncia al suo ruolo di arbitro e poliziotto globale. La prospettiva nazionalista ne giova assai, e in certe contee del Michigan e della Pennsylvania non importa poi tanto che la pace sia stata siglata per finta, oppure che a guadagnarci sia la già vituperata Cina. “L’incontro è una indiscutibile vittoria domestica per Trump, che è arrivato a Singapore con Sean Hannity e tutta la macchina della propaganda per trasmettere l’impressione di una grande vittoria politica presso la sua base. Si tratta di un calcolo di breve respiro, ma probabilmente efficace. Trump ha già vinto questa battaglia inducendo un cambiamento di percezione pressoché totale, almeno sulla politica estera, nell’elettorato conservatore”, spiega Bremmer, ricordando un dato: un sondaggio di alcuni anni fa della Brookings Institution diceva che il cinquanta per cento dei repubblicani riteneva la Corea del nord la minaccia più grave per la stabilità globale; oggi la stessa fetta elettorale porta in trionfo il presidente che ha dato legittimazione al sanguinoso regime senza chiedere nulla in cambio.