La retorica sul “pericolo invasione” soffia perfino sull'Asia orientale
Se pensate che quello dell’immigrazione sia un tema esclusivo dell’Europa vi sbagliate. Ci sono 500 yemeniti bloccati in Corea del sud
Roma. Se pensate che quello dell’immigrazione sia un tema esclusivo dell’Europa vi sbagliate. Negli ultimi mesi due anche in Asia orientale due delle democrazie più vicine a quelle occidentali, il Giappone e la Corea del sud, hanno iniziato a porsi il problema: da una parte l’invecchiamento della popolazione sta rendendo necessaria la ricerca di manodopera straniera, dall’altra l’opinione pubblica sembra contraria a ogni tipo di cambiamento.
Prendiamo per esempio la Corea del sud, quarta economia asiatica. Subito dopo la guerra i coreani emigrarono all’estero, ma dopo il boom economico degli anni 70 e 80 la situazione si rovesciò: la Corea del sud divenne un luogo desiderabile per i cittadini del sudest asiatico in cerca di lavoro. Il problema, però, è quello che Seul condivide con Giappone e Cina, e cioè l’idea della purezza e della superiorità dei coreani rispetto al resto del mondo, e quindi la necessità di preservare l’omogeneità della società. Questo sentimento è riconoscibile ancora oggi soprattutto tra i più anziani, meno nelle nuove generazioni globalizzate. A parte i lavoratori stranieri temporanei – che sono sempre meno, ma di cui il governo di Moon Jae-in ha bisogno, visto che decenni di competizione scolastica ha portato ai giovani coreani a essere troppo qualificati per la manodopera – un caso specifico sta montando sull’isola di Jeju.
Oasi paradisiaca all’interno del territorio sudcoreano, Jeju è la più grande isola al largo delle coste della penisola, ed è da sempre la destinazione turistica privilegiata per chi, in Asia, voglia evitare la provincia giapponese di Okinawa. Cinquecentomila abitanti che sopravvivono quasi del tutto grazie al turismo, specialmente quello cinese. E’ per questo che nel 2016, quando la Cina bloccò i viaggi organizzati sull’isola per vendicarsi del governo di Seul che aveva autorizzato l’America a istallare lo scudo antimissile Thaad, la Corea del sud iniziò a capire che non si poteva lasciare l’area nelle mani dei turisti. E’ stato Moon ha iniziare a spostare alcune sedi governative a Jeju, proprio per mostrare che nonostante la lontananza il governo centrale è anche lì. Per promuovere il turismo, Seul aveva già da tempo allentato le regole per l’ingresso degli stranieri nell’isola. E’ uno dei motivi per cui in questo momento a Jeju ci sono cinquecento yemeniti venuti dalla Malaysia – paese a maggioranza musulmana e uno dei luoghi che più ha accolto migranti dal medio oriente – che aspettano di essere collocati da qualche parte. Sono arrivati in aereo, con documenti regolari, ma per la Corea del sud una guerra nel proprio paese non dà automatico diritto di status di rifugiato.
In questi giorni i quotidiani sudcoreani sono pieni delle storie di questi yemeniti e anche delle reazioni dei sudcoreani: gli abitanti di Jeju stanno collaborando per trovargli sistemazioni e lavori, ma non tutti sono d’accordo. Uno dei migranti ha detto domenica scorsa al JoongAng Ilbo di essere arrivato dalla Malaysia e di alloggiare insieme con altri trenta yemeniti in un hotel nella città di Jeju. Vive con cinque persone in una stanza da due e nonostante i prezzi siano scontati non sanno se potranno pagarla. “Molti di quelli che si oppongono al programma che autorizza l’ingresso senza visto dicono che gli yemeniti ‘creeranno problemi’”, ha scritto Claire Lee sul Korea Herald, “specialmente nei confronti delle donne coreane perché ‘sono musulmani’. Da martedì pomeriggio oltre 430 mila coreani hanno firmato una petizione online per chiedere al presidente di deportare i richiedenti asilo yemeniti e di rivedere le attuali leggi sull’immigrazione”. Con una popolazione di oltre 51 milioni di persone, la Corea del sud da decenni si fa carico del problema dei “disertori” nordcoreani. Ma quelli sono coreani, in fondo. Solo nel 2015 i richiedenti asilo provenienti dallo Yemen in Corea del sud era pari a zero; sette nel 2016, 42 nel 2017 e circa 500 quest’anno, che non è ancora finito.