Lezioni dalla Germania? Come imparare a riconoscere il vero interesse nazionale
Pochi anni fa Berlino era il malato d’Europa. Anziché alimentare uno sterile risentimento, dovremmo chiederci come l’economia tedesca è guarita
“Cosa è successo alla Germania? La più grande economia europea, la terza al mondo, il primo welfare state, versa oggi in uno stato di angoscia e di sconforto. Negli ultimi dieci anni, l’Europa è stata il continente a più bassa crescita. In Europa, la Germania, con l’Italia, ha segnato il passo. (…) Il Wirtschaftswunder, il tanto ammirato miracolo economico tedesco del dopoguerra, è ormai un ricordo. (….) Oggi, la Germania è il grande malato d’Europa”.
A lanciare questo grido d’allarme, undici anni fa, era Hans-Werner Sinn, il più noto macroeconomista tedesco, in prefazione al suo “Can Germany be Saved? The Malaise of the World’s First Welfare State” (Mit Press, 2007). Le difficoltà tedesche erano in parte riconducibili anche a potenti discontinuità esogene, per il repentino ingresso di nuovi paesi a basso costo nel sistema mondiale degli scambi e per i costi della riunificazione dopo la caduta del muro. La risposta di Sinn, uscita in prima edizione nel 2003 e recepita nel programma di Angela Merkel, si concentrava però sui compiti a casa, sul funzionamento dell’economia sociale di mercato: enunciava un obiettivo prioritario, la produttività, e illustrava le proposte d’intervento su istituzioni, regole, incentivi.
Dalle nostre parti, quel pragmatismo operoso risulta piuttosto impopolare. Ricorrono, incessanti, le evocazioni negative sul “modello tedesco”. I toni sanno essere lievi o rudi, ma il mantra incide su coscienze collettive e mercati, coltiva risentimento, genera incertezza. Ne scrivevo sul Corriere della sera già nel 2013, ma visto che la situazione non è cambiata val la pena tornare su alcuni esempi. Nel volgere di pochi anni abbiamo ascoltato gli accostamenti delle politiche di austerità durante le crisi greca e italiana alla deflazione indotta da Brüning al tramonto della Repubblica di Weimar; le rivendicazioni contro la linea intransigente della Bundesbank di Emminger prima dell’uscita dell’Italia dallo Sme, richiamate per rinfocolare il risentimento verso la Corte di Karlsruhe per aver fissato un limite massimo all’impegno della Germania nelle operazioni di salvataggio degli stati in crisi; le evocazioni sul ruolo di pezzi del sistema finanziario tedesco nella crisi del luglio 2011, o le pulsioni egemoniche che sarebbero dimostrate dall’ossessione per produttività e lotta all’inflazione.
Per parlare di un tema chiave per Sinn, vi è anche chi ha pensato bene di accostare il piano Hartz su welfare e mercato del lavoro voluto da Schröder a inizio anni duemila al mercantilismo protezionista di Schacht, ministro dell’economia e governatore della banca centrale tra il 1933 e il 1939. Certo, il pacchetto Hartz non fu indolore, né produsse risultati immediati, se è vero che Schröder si giocò segreteria del partito e cancellierato. Quegli interventi, però, hanno segnato una svolta e, insieme ad altri, disegnati per essere complementari, hanno sostenuto il presidio di produzioni ad alto valore aggiunto e l’attrazione di lavoro qualificato. In questa valutazione, l’idolatria di modelli di sviluppo altrui, altro refrain contemporaneo, non c’entra niente. Peraltro, abbiamo tutti letto Vincenzo Cuoco da ragazzi, sappiamo cosa capitò a donna Eleonora, e il cardinal Ruffo ci ha insegnato come andrebbe a finire. Proprio per questo, però, possiamo utilmente concentrarci su cosa fare in Italia per la crescita, anziché puntare sulla rivalsa verso lo “straniero”.
Un esempio per tutti. Oggi, giugno 2018, le pensioni italiane sono finanziate in larga parte a ripartizione, come negli anni gloriosi dell’espansione demografica e della ripresa. Le pensioni in erogazione si reggono sui versamenti degli occupati, e questi si aspettano che le coorti successive faranno lo stesso per loro. La demografia, i tassi di occupazione, la pressione fiscale sul lavoro, ma anche la generosità di molti assegni pensionistici rispetto ai contributi versati e all’aspettativa di vita, ci dicono che questo assetto non aiuta la produttività. Nel complesso, un occupato italiano contribuisce al finanziamento della spesa pubblica per pensioni e sanità con una quota superiore al 60 per cento del pil pro capite. In Germania, quel valore è inferiore di circa venti punti percentuali, mentre più alta è la diffusione del pilastro a capitalizzazione reale. Questo differenziale ci dice di una distanza insostenibile tra costo del lavoro per le imprese e salario netto, distanza che fa saltare la credibilità della promessa pensionistica, ostacola l’occupazione qualificata e il presidio dei settori chiave per la crescita della produttività, non contribuisce certo a ridurre gli squilibri nell’area euro e, a cascata, non giova né agli attivi né, specie in caso di caduta della fiducia sul potenziale di crescita del paese, ai passivi bancari. Sospesi come siamo tra bassa crescita e alto debito, smettiamola di trovare spiegazioni esterne. La credibilità dell’azione di governo e il sistema degli incentivi per il lavoro e per le imprese – non il risentimento, e neppure le richieste di mutualizzazione del debito – rimangono l’unico vero collaterale per l’interesse nazionale in Europa.
Fabio Pammolli
Politecnico di Milano