Prigionieri al lavoro in un gulag (CC License via Wikimedia)

Storici arrestati e documenti distrutti. Così si cancella la memoria russa

Micol Flammini

Dmitrev è in carcere e le carte sui gulag non esistono più

Roma. In Russia la storia è giovane. Non ha conosciuto né il Rinascimento, né l’Illuminismo è cominciata in ritardo rispetto a quella europea ma è arrivata con l’irruenza degli eventi inaspettati. Tutto è successo da poco ma ha continuato a ripetersi, mascherandosi da altro. I gulag c’erano ai tempi degli zar, case di morti avrebbe detto Dostoevskij, e durante l’Urss hanno continuato a svolgere la stessa funzione, logorare, portare allo sfinimento mentale e poi fisico i personaggi scomodi. “Dei diritti, la Russia non sa cosa farsene”, scriveva Joseph Roth nelle bozze preparate per una conferenza a Francoforte nel 1927.

   

E oggi, che i gulag non ci sono più, le personalità scomode finiscono in galera, a volte per crimini mai commessi, subiscono continui arresti che portano allo stesso sfinimento prima mentale e poi fisico. La giovane storia russa preoccupa il Cremlino che ha deciso di distruggere i documenti dei gulag, le schede personali dei detenuti, date di nascita, di morte, di scarcerazioni, pene, cure mediche, tutto finito al macero per dimenticare. L’operazione è stata scoperta per caso, quando un ricercatore del Museo della storia dei gulag a Mosca cercava notizie su un detenuto, deportato nella Kolyma. Sul prigioniero non ha scoperto molto, in compenso è venuto a sapere dell’esistenza di una direttiva del 2014 che ordina la distruzione delle schede dopo che i prigionieri, vivi o morti, hanno compiuto ottant’anni. Il prigioniero oggetto della ricerca avrebbe compiuto ottant’anni nel 1989, quindi dopo l’approvazione della direttiva la sua scheda personale era stata distrutta subito, così come quelle della maggior parte dei prigionieri.

   

Prigionieri in un gulag 1936-37 (via digitalcollections.nypl.org)


  

Ma se si vuole dimenticare bisogna anche limitare il lavoro di chi cerca in ogni modo di farci ricordare, anzi di chi ha una passione per il ricordo, per la memoria e per il passato: gli storici. C’è chi ha detto che in Russia non esiste mestiere più pericoloso dello storico, e i fatti sembrano confermarlo. Juri Dmitrev è uno storico, ha sessantuno anni e mercoledì è stato arrestato con l’accusa di aver abusato di sua figlia. Non ci sono prove, solo delle foto che la polizia ha trovato nel computer dello storico. Un diario fotografico della bambina, oltre duecento foto.

  

Dmitrev vive in Karelia, una regione che confina con la Finlandia e aveva scoperto, già nel 1997, delle fosse comuni nei boschi. Dopo dieci anni di ricerche era riuscito a localizzare e identificare quasi 10 mila vittime. Tutte uccise con un colpo di pistola, tutte morte negli anni Trenta e vittime del Terrore staliniano. Lo storico allora decise di aprire un archivio che documentasse la sua scoperta e poi mise su un’associazione e sull’area delle fosse comuni decise di porre una pietra enorme conosciuta come Sandarmokh con incise le parole “Le persone non si uccidono l’un l’altro”.

     

L’ingerenza della polizia nella sua vita è stata crescente, nel 2016 il primo arresto dopo il ritrovamento delle foto, ma un giudice non aveva trovato nulla di strano in quelle immagini e Dmitrev era stato rilasciato. Poi un altro arresto, i colloqui con uno psichiatra e di nuovo la scarcerazione e ora di nuovo in carcere. Un logoramento mentale prima e fisico poi. Dmitri Bykov, scrittore russo e amico dello storico, in un’intervista all’agenzia AP ha detto: “La storia di Dmitrev è la metafora della Russia moderna” e così la pensano anche altri esponenti del mondo della cultura che si sono mobilitati in favore dello storico. Anche l’Unione europea ha messo in discussione le accuse nei confronti dello studioso che potrebbero essere il tentativo di screditare la sua reputazione e le sue scoperte.

  

Il Cremlino ha dichiarato guerra al passato, anzi alla memoria, a tutti i ricordi che rischiano di screditare la Russia. “Dopo il terrore rosso, esaltante e sanguinoso della rivoluzione, arrivò il terrore ottuso, silenzioso, nero della burocrazia – scriveva Roth al ritorno del suo viaggio in Russia – il terrore della penna e del calamaio” e oggi anche della damnatio memoriae.

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