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Prima o poi bisognerà prendere una decisione: fare affari con la Cina ha un prezzo

Giulia Pompili

L’esperienza australiana sull’“influenza cinese” nelle accademie e in politica. Le mani di Pechino pure negli atenei in Europa

Roma. Tutto è iniziato con l’Australia. Il paese, che fra le potenze anglosassoni del Pacifico è il più dipendente dalla Cina dal punto di vista commerciale, ha iniziato a interrogarsi qualche mese fa sull’influenza che Pechino può esercitare sulla vita pubblica australiana. E a prendere provvedimenti. Il dibattito è cominciato nelle università, luogo simbolo della libertà di pensiero per il sistema di valori occidentali, dove però discussioni su Taiwan, sui diritti umani, sulle proteste di piazza Tiananmen del 1989, per esempio, venivano sistematicamente silenziate dagli sponsor cinesi. Il tema dell’influenza di Pechino in Australia è finito per essere l’oggetto di un libro la cui pubblicazione è stata rimandata per circa un anno per via del timore di ritorsioni da parte di Pechino contro l’editore: alla fine “L’invasione silenziosa”, scritto dall’accademico australiano Clive Hamilton, è stato distribuito e ha aperto un vaso di Pandora soprattutto per quel che riguarda i finanziamenti ai partiti australiani da parte di soggetti legati a Pechino.

 

La scorsa settimana l’Australian Strategic Policy Institute ha pubblicato un report secondo il quale dal 2010 a oggi Huawei, colosso cinese delle telecomunicazioni, ha pagato almeno dodici viaggi di stato del governo di Canberra a Shenzhen, nel suo quartier generale. A parte l’eventuale danno d’immagine per un politico, che paga il suo prezzo con l’opinione pubblica se decide di farsi pagare voli in business class da aziende straniere, una compagnia privata può ovviamente fare quel che vuole: i viaggi ai politici australiani erano offerti ufficialmente per avvicinare personalità come il ministro degli Esteri, Julie Bishop, allo sviluppo tecnologico cinese. Secondo alcuni, però, la strategia della compagnia cinese mirava più in alto: la partita per la mastodontica infrastruttura del 5G sta per aprirsi anche in Australia, e Huawei avrebbe desiderato un posto in prima fila tra le aziende a cui affidarla. Eppure la stessa Huawei e Zte sono già state escluse dagli Stati Uniti dalle infrastrutture strategiche per motivi di “sicurezza nazionale”. Dopo alcuni report definiti “preoccupanti”, il primo ministro australiano Malcolm Turnbull ha promosso una legge, approvata in Parlamento giorni fa, che rafforza le agenzie di sicurezza interne “dalle influenze straniere”. Pur non citando esplicitamente la Cina, è chiaro a chi si riferisca. Pechino ha replicato indignata al clima di “sinofobia” che sta crescendo in Australia, dove vivono almeno un milione di cinesi e dove il 5,6 per cento dei 25 milioni di cittadini è di origine cinese.

 

L’ex primo ministro australiano John Howard, intervenendo giorni fa a un forum del Five Eyes, l’alleanza delle agenzie di intelligence anglofone, ha detto che l’influenza cinese in Asia e nel Pacifico non è più nemmeno paragonabile a quella russa in Europa. Uno dei metodi d’influenza più riconoscibili è quello della diaspora, ma non si limita alla presenza di cittadini cinesi all’estero. E’ soprattutto grazie al soft power – e al finanziamento di attività accademiche – che Pechino si sta ritagliando un ruolo di primo piano anche in questa parte di mondo. Un articolo pubblicato ieri dal Financial Times spiegava come l’Università di Nottingham Ningbo China, la prima università anglocinese a essere riconosciuta da Pechino, avrebbe rimosso il docente di Storia economica della Cina Stephen Morgan dal consiglio di amministrazione dell’università dopo che lo stesso Morgan aveva espresso posizioni piuttosto critiche nei confronti del Partito comunista cinese. “Con il presidente Xi Jinping il controllo ideologico è aumentato in tutte le università cinesi, stanno crescendo i controlli sui libri di testo stranieri, sono sempre di più i corsi finanziati dal Partito e gli istituti di ricerca con materie come ‘Il pensiero di Xi Jinping’”, scrive la corrispondente da Pechino Emily Feng: “I segnali che questo tipo di controllo si stia lentamente estendendo anche alle joint venture stanno aumentando”. Il mese scorso la giornalista americana Bethany Allen-Ebrahimian, invitata all’Università di Savannah dall’Istituto Confucio, ha scoperto che in tutti i materiali stampati per presentare l’evento era stato cancellato ogni riferimento a un suo vecchio lavoro a Taiwan.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.