Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e il presidente americano Donald Trump (foto LaPresse)

E' vero, siamo gli scrocconi della Nato. Ma occhio alla trappola del 2-per-cento-del-pil

Paola Peduzzi

Si può spendere di più per la Difesa ma se non si hanno obiettivi comuni lo sforzo potrebbe essere inutile

Milano. E’ vero, per quanto riguarda le spese per la difesa dei paesi membri della Nato, l’America fa da “salvadanaio” (il copyright è di Donald Trump) per gli altri suoi partner. Non da oggi: nel 2006 George W. Bush disse a un vertice della Nato come quello che si terrà la prossima settimana a Bruxelles le stesse cose che sta dicendo oggi Trump. E così fece nel 2014 Barack Obama, che sui “freerider” europei si è espresso più volte durante la sua presidenza, e gli scrocconi – cioè noi – non l’hanno mai presa troppo bene. I numeri, per come sono stati messi finora, non sono fraintendibili: 24 paesi della Nato su 28 non raggiungono la soglia del due per cento del pil richiesta come contributo minimo all’alleanza. Tra questi ci sono nove paesi che sono più vulnerabili alla minaccia russa e c’è anche la Germania, che una volta era cruciale nella difesa della regione centrale dell’Europa e che ha l’economia più di successo del continente.

 

  

Ci sono però due elementi che vanno considerati al di là del salvadanaio e che hanno a che fare da una parte con gli investimenti americani nella difesa – che non sono paragonabili con nessun’altra potenza mondiale – e con la natura stessa della Nato, cioè di che cosa vuole essere, e in che modo vuole essere efficace. Nonostante i proclami sull’“America first” che condiscono la retorica trumpiana, dal punto di vista della spesa militare gli Stati Uniti continuano a comportarsi come una superpotenza che ha una strategia di protezione dei propri alleati e di deterrenza nei confronti dei propri nemici. L’aumento del budget della difesa rispetto al 2017 è pari a 74 miliardi di dollari: soltanto questo aumento (su un totale che, se si escludono le spese nucleari, è di circa 600 miliardi) è superiore al budget stanziato complessivamente da ciascun paese europeo (il budget del Regno Unito è di 55,2 miliardi di dollari, quello della Francia di 45,9, quello della Germania di 45,5, quello dell’Italia di 23,4 miliardi). Gli Stati Uniti spendono il 38,2 per cento di tutte le spese militari del mondo, otto volte quelle della Russia, quattro quelle delle Cina, dodici quelle dell’Inghilterra, ventiquattro volte quelle dell’Italia. Il ruolo di salvadanaio è già insito in queste proporzioni.

 

Nell’analisi dei dati – il Center for Strategic&International Studies ha pubblicato un rapporto dettagliato sulle spese della difesa – si scopre che la correlazione tra spese per la difesa e pil in realtà non ha molto significato. Detto in altri termini: si può anche raggiungere il due per cento del pil, ma se non si hanno obiettivi comuni lo sforzo potrebbe essere inutile. L’esperienza inglese è emblematica: il Regno Unito ha raggiunto e di poco superato la soglia del due per cento del pil (2,19 per cento nel 2017), ma un report appena pubblicato dalla commissione Difesa dei Comuni stabilisce che per mantenere la capacità bellica costante, la spesa deve raggiungere almeno il 2,5 per cento del pil. Per un miglioramento – cioè per un sistema bellico più efficace – la spesa deve arrivare almeno al 3 per cento. Ma un miglioramento di che tipo? Questo dipende dagli obiettivi, cioè da quale minaccia è necessario difendersi, e a seconda dei paesi della Nato – la geografia conta – le esigenze cambiano. Per questo molti esperti militari dicono che la soglia del due per cento è una trappola in cui gli stessi paesi della Nato, ben prima di Trump, si sono infilati.

 

C’è anche un altro paradosso: la capacità di deterrenza degli Stati Uniti nei confronti di minacce dirette all’Europa – l’articolo 5 della Nato prevede che una minaccia a un membro dell’Alleanza faccia scattare l’intervento di tutti gli altri: Trump ci ha messo un po’ a dire di essere d’accordo con l’articolo 5, ma l’anno scorso lo ha fatto in modo esplicito; ora potrebbe rivedere la sua posizione, ma si tratterebbe di uno stravolgimento del significato stesso di alleanza, una condanna a morte della Nato – dipende grandemente dalla modernità degli investimenti fatti. La presenza americana sul continente europeo è molto ridotta rispetto a quella dei tempi sovietici (nel 1990 l’America aveva 244.100 persone in Germania, ora ne ha 36.300): questo significa ancora una volta che la soglia del due per cento può anche essere raggiunta, ma se non c’è una coerenza interna alla Nato negli obiettivi, su come e da cosa ci si vuole difendere, lo sforzo di non passare più per scrocconi potrebbe rivelarsi del tutto inefficace.

 

Se è vero che spendere di più non può che aumentare le capacità di difesa, non c’è modo di sapere che cosa si ottiene con questo “di più” e che cosa si perde spendendo di “meno”. Le opinioni pubbliche e tutti quei partiti e movimenti contrari alla Nato e alle spese inutili per contrastare nemici immaginari (vedi la Russia: tra i populisti la lotta alla Nato è un collante forte) si muovono a seconda di questi “più” e questi “meno” ed è il motivo per cui oggi tutto il dibattito sulla difesa occidentale, a cui dovremmo essere molto sensibili visto che non parliamo d’altro che di sicurezza, sembra una discussione tra bambini: il salvadanaio è mio, tu sei soltanto uno scroccone.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi