L'America dell'intolleranza
Cadono le maschere liberal. Il bersaglio questa volta è una brillante giurista, Amy Coney Barrett. Sette figli, troppo cattolica per essere nominata alla Corte suprema. Anche se ha tutti i titoli
Non si sa se lunedì Donald Trump sceglierà Amy Coney Barrett per rimpiazzare, previa conferma da parte del Senato, il giudice della Corte suprema Anthony Kennedy, che abbandonerà ufficialmente il suo incarico il 31 luglio. Si sa però che la giudice della Corte d’appello federale è inclusa della lista dei venticinque giuristi selezionati da Trump prima ancora della scelta di Neil Gorsuch, la nomina nella massima corte toccata finora al presidente; non si sa con certezza, ma si può ragionevolmente ipotizzare, che Barrett sia anche nella rosa ristretta di quattro candidati che Trump ha convocato alla Casa Bianca questa settimana. Con ciascuno si è trattenuto privatamente per tre quarti d’ora. Tutti i media la includono nelle ipotetiche shortlist per riempire il posto vacante e la Cbs dice che se la gioca in una finale a due con Brett Kavanaugh, un altro giudice dello stesso livello con un pedigree leggermente più canonico per gli standard della Corte suprema (ha infatti la certificazione dell’Ivy League). Un’altra cosa che si sa con certezza è che la sola comparsa del suo nome fra i papabili per rimpiazzare Kennedy – improbabile eroe dei liberal che ha messo la firma sul matrimonio gay – ha scatenato una campagna denigratoria dai toni fra l’indignato e l’apocalittico, un movimento intriso di pregiudizi che rivela un clima di intolleranza normalmente coperto da una formale coltre di correttezza. Barrett ha fatto saltare tutte le inibizioni e le pretestuose cortesie dietro cui la cultura liberal si trincera per meglio spacciarsi come equa e scevra di pregiudizi. Di fronte all’eventualità di una sua nomina le maschere sono cadute, gli infingimenti sono evaporati, e lei è diventata il simbolo di uno scontro culturale più ampio di una singola nomina.
La sola comparsa del suo nome fra i papabili per rimpiazzare il giudice Kennedy ha scatenato una campagna denigratoria
Gli attacchi non si sono concentrati sulle credenziali accademiche e professionali di Barrett, sulle quali c’è poco da dire. La 46enne originaria della Louisiana ha una laurea con lode al Rhodes College, ha studiato alla Scuola di legge di Notre Dame, dove ha conseguito anche il dottorato, ha diretto la rivista di legge dell’università, è stata clerk per il giudice della Corte d’appello Laurence Silberman e poi per quello della Corte suprema Antonin Scalia, ha praticato l’attività forense presso il prestigioso studio Miller, Cassidy, Larroca & Lewin a Washington, è diventata professoressa presso l’università in cui ha concluso gli studi e nel 2017 è stata nominata da Trump nella Corte d’appello, settimo distretto, con sede a Chicago. E’ il percorso di una brillante giurista all’apice della maturità professionale. L’obiezione dei suoi critici non è nemmeno legata alla scuola giuridica originalista della quale evidentemente fa parte. Al pari del suo maestro Scalia, anche Barrett intende la carta costituzionale come un testo morto e pensa che nel prendere le decisioni il giudice debba attenersi il più possibile alla lettera del testo, evitando digressioni interpretative che spesso finiscono per andare a braccetto con l’attivismo politico. Non è stata la disfida fra concezioni del diritto a dominare il dibattito intorno a Barrett. La questione infiammata è la sua appartenenza religiosa: la sua vera colpa, infatti, è essere cattolica. Anzi, per la verità, la colpa suprema è quella di essere cattolica e di crederci davvero, cioè di non essere una “cafeteria catholic”, come William Buckley ha magistralmente definito i fedeli da bar. Anche Kennedy è cattolico, ma nella sua lunga e influente carriera alla Corte suprema ha aperto la via per il riconoscimento dei diritti degli omosessuali e non ha toccato la sentenza Roe v. Wade, che ha legalizzato l’aborto, quando ne ha avuto l’occasione. In modo ancora più pregnante, il giudice ha lasciato alla posterità la sua frase più famosa, quel passaggio sul “mistero della vita” che non pare concepito per accordarsi con il catechismo: “Nel cuore della libertà c’è il diritto di definire il proprio concetto di esistenza, di significato dell’universo e del mistero della natura umana”.
La minaccia della revoca del diritto all’aborto è un’eventualità che viene agitata ogni volta che c’è un avvicendamento nella corte
Lontana da queste tiepidezze, Barrett è invece presentata, specialmente dagli avversari che hanno reagito nel modo più isterico alla crescita del suo nome nelle quotazioni, come una cattolica di tipo diverso, una beghina d’impostazione carismatica con sette figli, di cui uno disabile e due adottati di Haiti, che non ha altra missione se non distruggere il diritto all’aborto e smantellare l’Obamacare. Prodromi della proclamazione della teocrazia. Quando il Partito democratico, sotto la guida vociante di Nancy Pelosi e Chuck Schumer, spaventa gli americani su questi due pilastri che il prossimo giudice potrebbe far crollare pensa innanzitutto a lei, prima assoluta nella classifica del fanatismo da culture war. Ovviamente i liberal sono normalmente cauti nel tenere celata qualsiasi forma di discriminazione religiosa, che squalificherebbe il loro argomentare ed evocherebbe vecchi pregiudizi anticattolici propri di una fase assai oscura della storia americana. L’altro giorno Schumer ha esposto in una serie di tweet le sue obiezioni all’attivismo giudiziario di Barrett, curandosi di evitare ogni riferimento alla religione e di rimanere ancorato ai presunti difetti della scuola giuridica a cui appartiene.
A volte però la cautela viene meno e malaccortamente rivelano ciò che davvero pensano. E’ il caso della senatrice democratica Dianne Feinstein, che durante le interrogazioni per la conferma nel suo ruolo di giudice le ha detto che “quando uno legge i suoi discorsi ne conclude che il dogma vive rumorosamente dentro di voi, e questo è causa di preoccupazione quando si tratta di questioni importanti per cui tante persone si sono battute negli anni”. La ramanzina è finita con una lezione sul fatto che “il dogma e la legge sono due cose molto diverse”. Feinstein è stata rimproverata da più parti per l’esibizione di un pregiudizio antireligioso: “Se un senatore cattolico avesse chiesto a un candidato ebreo se mette Israele prima degli Stati Uniti o se un senatore bianco avesse chiesto a un candidato nero se, dato il suo background, sarebbe stato un giudice obiettivo, i liberal starebbero urlando”, ha scritto il professore (liberal) di Harvard Noah Feldman, mentre il collega repubblicano Orrin Hatch diceva che la senatrice aveva imposto un incostituzionale “test religioso” alla candidata.
La senatrice non era certo la sola in quell’aula a coltivare lo stesso sentimento. Dick Durbin, un cattolico tendenza Kennedy, ha chiesto a Barrett se era una “cattolica ortodossa” e Mazie Hirono ha gravemente insinuato che la signora avrebbe preso decisioni sui casi giudiziari sulla base della fede e non della legge. Non avevano letto un suo articolo scientifico, scritto insieme a John Garvey, sulla posizione dei giudici cattolici sui casi che coinvolgono la pena di morte, un caso di scuola intorno al dilemma fra convinzioni religiose e legge. Gli autori concludevano in modo lapidario che “i giudici non possono, né devono tentare, di far allineare il nostro sistema legale con gli insegnamenti morali della chiesa quando questi divergono”.
Per gli avversari è una beghina che non ha altra missione se non distruggere il diritto all’aborto e smantellare l’Obamacare
Barrett è stata confermata dal Senato con il voto di Lisa Murkowski e Susan Collins, le due repubblicane pro-choice che sono al centro delle attenzioni politiche in questi giorni, e anche dei democratici Joe Manchin, Joe Donnelly e Tim Kaine, il candidato alla vicepresidenza nel ticket con Hillary Clinton. Il voto non ha tuttavia fermato la caccia alla presunta fanatica religiosa. Un articolo apparso sul New York Times a firma di Laurie Goodstein ha collegato Barrett al gruppo religioso People of Praise, un piccolo movimento nato attorno all’Università di Notre Dame che la giornalista si premura di descrivere come una setta paranoica e segretissima in cui i leader esercitano un controllo ossessivo sugli adepti, ne condizionano le scelte affettive e professionali e impongono ai membri una gerarchia patriarcale che si esprime al massimo grado nella nomina di consiglieri spirituali chiamati “head” per gli uomini e “handmaid” per le donne. Questa setta è talmente conservatrice che Papa Francesco ha nominato uno dei suoi membri vescovo di Portland, ed è talmente segreta che ha fondato tre scuole che hanno vinto sette riconoscimenti pubblici da parte del dipartimento dell’Istruzione. Basta una ricerca di pochi minuti per capire che People of Praise è un gruppo di preghiera di impostazione carismatica come ce ne sono a migliaia, che la sua esistenza è protetta dalla Carta costituzionale e che incidentalmente la sensibilità cristiana che questo esprime è ampiamente diffusa presso il popolo americano, ma l’articolo di Goodstein ha continuato a galleggiare nel web ed è stato all’occorrenza riesumato quando il nome di Barrett è stato fatto per sostituire Kennedy. E’ allora che personaggi come Richard Painter, professore di Legge all’Università del Minnesota, già consigliere della commissione etica della Casa Bianca e candidato al Senato, hanno preso posizione: “Un gruppo religioso in cui i membri fanno un giuramento di fedeltà gli uni agli altri e sono controllati da un ‘head’ e una ‘handmaiden’. A me sembra una setta. Ora lei vuole un posto alla Corte suprema al solo scopo di rovesciare la Roe v. Wade. La risposta è no”.
Fioccano le fake news. Il Center for American Progress ha scritto che “si è schierata contro i lavoratori afroamericani”
In questo clima di pregiudizio non potevano non fioccare le fake news. Il Los Angeles Times ha scritto che Barrett in un articolo scientifico del 2003 ha descritto la Roe v. Wade come una “decisione erronea”. Il giornale californiano in realtà ha pigramente copiaincollato l’espressione dai molti articoli che circolavano lo scorso anno sul suo conto, quando appunto la sua candidatura alla Corte d’appello era al vaglio del Congresso, e nel paper che cita per dare una parvenza di credibilità all’accusa l’espressione “decisione erronea” appare soltanto una volta, in un contesto completamente scollegato dalla sentenza sull’aborto. La Roe v. Wade viene citata una sola volta, in una nota priva di ogni giudizio di valore o religioso, nel contesto di un articolo che discute dell’opportunità dei giudici di rovesciare precedenti alla luce di nuove condizioni. Barrett non ha mai detto che vuole rovesciare la Roe v. Wade e nemmeno che la ritiene una “decisione erronea”. Ironia del diritto, una giudice che invece si è espressa in termini critici sul modo in cui la decisione è stata presa è Ruth Bader Ginsburg, eroina della libertà di scelta. A suo avviso “l’intervento con la mano pesante era difficile da giustificare e ha provocato conflitti invece di risolverli”. Ma non è questo il punto più basso della campagna contro Barrett.
Il Center for American Progress (Cap), think tank democratico da cui Obama ha pescato idee e persone a piene mani, ha scritto attraverso uno dei suoi account Twitter, che la giudice “si è schierata contro i lavoratori afroamericani e in favore della politica ‘separati ma uguali’ di un’azienda, alla faccia del Civil Rights Act del 1964. Adesso è candidata per un posto nella nostra massima corte”, il tutto corredato dagli hashtag #SaveSCOTUS #StopBarrett. Il problema è che nella sentenza a cui si fa riferimento, United States Equal Emloyment Opportunity Commission v. Autozone, Inc, il nome di Barrett non compare fra i giudici, semplicemente perché all’epoca non era stata ancora nominata. E’ arrivata in quel tribunale cinque mesi più tardi. Il moltiplicarsi delle bufale era forse inevitabile in quell’ambiente dopo che la presidentessa del Cap, Neera Tanden, ex consigliera di Hillary, ha partorito la principessa di tutte le teorie del complotto intorno alle dimissioni di Kennedy: “Il figlio del giudice Kennedy ha prestato un miliardo di dollari a Trump quando nessun altro gli avrebbe dato un centesimo, e il giudice Kennedy ha preso decisioni in favore dell’Amministrazione Trump per due anni, mentre la corte ha preso decisioni da 5-4 una dopo l’altra”. Si tratta di una ridicola enormità castigata come tale perfino da Slate, giornale di sinistra ampiamente contrario a Barrett, basata sul fatto che il figlio di Kennedy dirigeva la sezione immobiliare di Deutsche Bank quando la banca ha aperto una consistente linea di credito a Trump. Secondo la logica non proprio ferrea di Tanden, per fare un piacere al figlio in qualche modo legato a Trump il giudice Kennedy avrebbe dato con tempismo politicamente calcolato le dimissioni dalla corte, ma non prima di aver passato due anni a scrivere sentenze ciecamente in favore dell’Amministrazione. Il complotto, parente stretto del pregiudizio, si fa avanti quando ogni altra alternativa è impraticabile. Le dimissioni di Kennedy hanno lasciato ai liberal soltanto questi strumenti per mobilitare la base e cercare di fermare una nomina che i repubblicani hanno, sulla carta, i numeri per ottenere. Il Partito democratico ha esplicitamente messo al centro della sua campagna la minaccia della revoca del diritto all’aborto, eventualità che dal 1973 viene agitata ogni volta che c’è un avvicendamento nella corte e che puntualmente non si realizza, ma è stato l’analista della Cnn Jeffrey Tobin a offrire l’affresco ideologico definitivo della corte post Kennedy: “La corte rovescerà la Roe v. Wade, permettendo agli stati di bandire l’aborto e di perseguire penalmente i medici e gli infermieri che lo praticano. Permetterà ai ristoratori, agli albergatori, ai negozi di abbigliamento di rifiutarsi di servire le coppie gay sulla base di motivi religiosi. Farà in modo che sempre meno afroamericani e ispanici vengano ammessi nelle università d’élite. Approverà leggi per erodere il diritto di voto. Invocherà il secondo emendamento per impedire agli stati di esercitare il controllo delle armi da fuoco”.
Al centro di questa presunta apocalisse c’è Amy Coney Barrett, che sarà o non sarà la prescelta di Trump, ma è stata attaccata con tale scompostezza da lasciar trasparire i più generali pregiudizi antireligiosi che la sinistra normalmente si premura di celare.