Sogni che muoiono in Baviera
Un regno a sé nella Germania della Merkel. Da Ludwig all’europeista Strauss, alle chiusure di Seehofer
Il Walhalla sorge su una collina alta cento metri sopra le rocce e il bosco che dominano il corso del Danubio, non lontano da Ratisbona. Ma non ha nulla a che vedere con la mitologia nordica, con l’anello dei Nibelunghi, con Sigfrido. Non è una cattedrale gotica né un castello medievale, bensì un tempio greco ispirato al Partenone. E’ stato inaugurato nel 1842 da Ludwig I di Baviera che aveva covato il suo progetto fin da quando gli ussari di Napoleone sconfiggevano uno dopo l’altro gli staterelli che allora componevano la Germania rimasta orfana del Sacro romano impero. Mentre risuonavano i tamburi di Jena e Austerlitz, il principe non ancora re cominciò a ordinare i busti che avrebbero poi affollato la sua “sala dei morti”. Anche se nato dalla sconfitta e dall’umiliazione, il monumento non ospita guerrieri, armature, o la panoplia bellica che il nazionalismo romantico ha celebrato da Fichte a Wagner. No, gli eroi di questo paradiso sono filosofi, poeti, musicisti, sono Kant, Beethoven, Goethe, sono i massimi esponenti della cultura, vero trait d’union di un paese per il resto diviso sotto tutti gli aspetti. Sono presenti solo due figure politiche davvero emblematiche: Federico il Grande di Prussia e Maria Teresa d’Austria. E un unico eroe mitico: Hermann, da noi chiamato Arminio, il capo tribù dei germani che sconfisse le legioni di Ottaviano Augusto nella foresta di Teutoburgo. Ludwig per la verità non ha trascurato le valchirie, che ha collocato al posto delle cariatidi greche, dipinte di bianco e blu, i colori del principato diventato monarchia dopo il Congresso di Vienna e la restaurazione. Ma il Walhalla che colpisce i visitatori sia per la sua imponenza sia per il forte messaggio, è un tempio di pace, concordia e saggezza. Quel monarca bello, colto, flamboyant come il nipote, il tormentato Ludwig II eroe del film di Luchino Visconti, ma gran tombeur des femmes (tra le infinite conquiste resta famosa la ballerina spagnola Lola Montez), concepiva la Baviera e la Germania tutta come ispirate da una missione etico-culturale, tra l’orgoglio di una indipendenza secolare e una dimensione universalistica. E’ ancora vivo questo sentimento collettivo nella Baviera odierna? Sembra di no se il suo messaggero è Horst Lorenz Seehofer, presidente del Land per dieci anni, capo della Csu (Unione cristiano sociale) e ora ministro degli Interni che minaccia Angela Merkel.
Una missione etico-culturale, l’ideale di Ludwig, tra l’orgoglio di una indipendenza secolare e una dimensione universalistica
Secondo alcuni è stato uno Schauspiel, una commedia. Seehofer ha tuonato, ha annunciato urbi et orbi le proprie dimissioni, poi si è ritirato con la coda tra le gambe. Angela Merkel sapeva che non aveva carte in mano e ha chiamato il bluff: vuole andarsene? Faccia pure, io metto qualcun altro al suo posto, magari un verde. Non è la prima crisi tra gli storici alleati e la cancelliera sa che la Csu non va da nessuna parte senza l’Unione cristiano democratica, la Cdu. Soprattutto le è chiaro che l’uomo in grado di portarla altrove non è il settantenne Seehofer, uno che, avrebbe detto Silvio Berlusconi, non ha mai lavorato davvero perché da impiegato comunale a Ingolstadt sul Danubio, non lontano da Monaco (è la città dove nel Diciottesimo secolo venne fondata la loggia degli Illuminati), è diventato subito politico di professione. A settembre ci sono le elezioni nel Land e lui ha bisogno di interpretare la parte del destrorso autonomista, lisciando il pelo alla bestia populista che ruggisce anche in Baviera contro l’immigrazione illegale, contro i rifugiati, contro la tolleranza di Frau Merkel, figlia in un pastore, luterano certo, ma pur sempre uomo del Vangelo. Alternative für Deutschland sta rubando consensi alla Csu, tentata, seguendo la Lega di Salvini, di recitare la sua parte anche sulla scena federale, come ala destra dell’elettorato conservatore e cristiano-democratico. Insomma, la voglia di emanciparsi dall’abbraccio con la sorella maggiore esiste e non è nuovo, anche se la crisi migratoria lo ha esasperato.
Satolli e consci della loro ricchezza (il pil supera il mezzo miliardo di euro, pari a quello di Grecia e Portogallo messi insieme, superiore a quello della Lombardia) ai bavaresi piacerebbe chiudere i valichi alpini, alzare i ponti sul Danubio e anche quelli sul Reno. Nel 1945 respinsero i profughi della Prussia orientale, anche se erano tedeschi. Hanno sempre digerito malamente l’Anschluss con la Prussia quando Otto von Bismarck mise assieme la sua Germania. Per restare a tempi più recenti, a ogni trattativa per formare un governo di coalizione la Csu pretende un ministero chiave: questa volta gli Interni, proprio per tenere a bada il cuore tenero della cancelliera, ai tempi dell’euro le Finanze con Theo Waigel, che durante il negoziato per il trattato di Maastricht gridava “Drei komma Nul” (tre virgola zero), al fine di far capire ai francesi e agli italiani che lui non ammetteva nessuna deroga. Successe esattamente il contrario, tutti hanno vissuto di deroghe, a cominciare da francesi e italiani come temeva Waigel. Anche i tedeschi per la verità, hanno avuto le loro eccezioni e le hanno sfruttate abilmente. E’ la Realpolitik, bellezza. Waigel non intendeva affatto ostacolare la nascita dell’euro, tanto meno voleva frantumare l’Unione europea, tutto il contrario. Lui era il figlioccio di Franz Josef Strauss, il più potente ministro-presidente della Baviera e capo della Csu, un uomo che ha dedicato la sua vita politica al progetto europeo (“Il Grande disegno” così intitolò il suo libro), un gigante dalla cui ombra nessun Seehofer potrà mai emanciparsi. In tanti hanno proclamato la morte di Angela Merkel: ebbene la notizia più che prematura era falsa. I giornali italiani, da Libero alla Repubblica, sia pur con stile e intenti diversi, hanno intonato il de profundis, ma avevano sottovalutato la storia, l’economia e le leggi bronzee della politica. Ed è per questo che dalla storia siamo partiti.
Il “Grande disegno” di Franz Josef Strauss, un’Europa federale, alleata agli Stati Uniti, ma in grado di competere sotto tutti gli aspetti
Nemmeno la Baviera è realmente omogenea, al contrario di quel che pensano i sovranisti, compresi quello bavaresi. Parte dell’antica Retia romana venne conquistata dai bavari alleati dei longobardi. Il nucleo centrale si è di volta in volta allargato fino all’Austria da un lato, alla Svevia e al Württemberg dall’altro. C’è una Baviera alpina che assomiglia alla Carinzia o al Tirolo. C’è una Baviera urbana composta da città simbolo come Ratisbona, Augusta o Norimberga, anche se dominata da Monaco con le sue cattedrali industriali e finanziarie: Bmw, Siemens, Bayern, Linde, Allianz, dove si è formata quella classe operaia che ha alimentato la socialdemocrazia tedesca e per una certa fase il Partito comunista. Non è un caso che il primo campo di concentramento venne aperto dai nazisti vicino a Monaco, a Dachau, per internare gli oppositori liberali e di sinistra. C’è un lungo elenco di resistenti bavaresi, molti dei quali giovani cattolici della Rosa Bianca (uno di loro, Alexander Schmorell, è stato proclamato giusto d’Israele e santo dalla chiesa ortodossa russa). La stazione centrale di Monaco è completamente aperta. Niente controlli per accedere ai binari. Non camionette né soldati nelle piazze, intorno alle chiese, davanti ai monumenti. L’attentato del 22 luglio 2016 al centro commerciale Olympia nel quartiere di Moosach sembra avvenuto in un’altra epoca e in un altro mondo: 9 morti e 35 feriti, colpiti dalla pistola di Ali David Sonboly, 18 anni, genitori iraniani, passaporto tedesco, simpatizzante di estrema destra. A Monaco la parola d’ordine è ancora Vertrauen, fiducia. Per quanto ancora?
La fiducia si è indebolita nelle aree agricole ed è sempre meno solida tra le valli alpine, soprattutto nei confronti degli stranieri. Ma non è vero che la Baviera sia la roccaforte della reazione come molti vogliono ritrarla. Il “libero stato” fu il primo insieme con l’Assia, fra i Länder tedeschi riemersi dal dopoguerra, a darsi una “Grundgesetz” o Legge fondamentale. Entrata in vigore l’8 dicembre 1946, ottenne il consenso del 70,6 per cento degli elettori sul 75 per cento dei votanti; i bavaresi avevano detto sì a un testo nel quale emergono principi di solidarietà e tolleranza, estremo rispetto delle libertà religiose in uno “stato cristiano a misura d’uomo” e un largo spazio di autonomia per le confessioni dal punto di vista sia dell’istruzione, sia dell’organizzazione interna che non deve rispondere a nessun altro potere.
Nel 1933 il nazismo aveva eliminato tutte le libertà locali, in una regione che ne aveva fatto il proprio vanto e le aveva difese anche in guerre fratricide, come il conflitto austro-prussiano di metà Ottocento. E’ significativo, nelle carte originali dei lavori per la Legge fondamentale, che all’articolo 1 la dizione “La Baviera è una repubblica” sia trasformata, con una cancellazione a mano, in “libero stato”. Gli americani, però, imposero l’obbligo di aderire alla nuova repubblica federale, frustrando le aspirazioni delle componenti autonomistiche le quali, tuttavia, spinsero affinché venisse respinta la divisione in due della Germania, da una parte quella occidentale, liberal-democratica, dall’altra quella orientale, comunista. Anche per la Baviera il piano Marshall fu la chiave della rinascita economica e democratica, e qui ha giocato senza dubbio un ruolo fondamentale la Csu.
A settembre ci sono le elezioni e Seehofer ha bisogno di interpretare la parte del destrorso autonomista, lisciando il pelo alla bestia populista
Nata nel 1945 come filiazione del Partito del popolo bavarese costituito durante la Repubblica di Weimar, il suo successo è indissolubilmente legato a Franz Josef Strauss la cui ascesa cominciò già nei primi anni Cinquanta. Definirlo personaggio controverso è un eufemismo. Soldato fedele al suo paese durante la guerra, che terminò come sottotenente dell’artiglieria antiaerea, interprete per gli americani durante l’occupazione, nel 1949 a 34 anni entra nel primo Parlamento federale, che non lascerà più fino alla morte nel 1988 durante una partita di caccia con i principi Turn un Taxis, già grandi elettori del Sacro romano impero. E’ stato lui a fare della Csu la solida stampella della Cdu con Konrad Adenauer. Arcinemico dei socialdemocratici e in particolare della Ostpolitik di Willy Brandt, grande rivale di Helmut Kohl, nel 1976, dopo una sonora sconfitta alle elezioni sciolse l’alleanza tentato di far da solo, ma quando la Cdu minacciò di aprire le sue sedi in Baviera, fece retromarcia. Nel governo federale si distinse come ministro della Difesa, incaricato di ricostruire l’esercito, la Bundeswehr, e per un progetto che divenne uno dei maggiori successi europei, e non solo industriali: l’Airbus. Si batté con ogni mezzo per l’alleanza franco-tedesca nell’aeronautica e riuscì a mettere in piedi un colosso militar-industriale in grado di rivaleggiare con gli americani soprattutto negli aerei civili. Oggi Airbus e Boeing si dividono il mercato mondiale.
Non era solo una operazione economica, al contrario voleva essere una stampella per quello che nel suo pamphlet uscito nel 1965 Strauss aveva chiamato il Grande disegno: una Europa federale, solidamente alleata agli Stati Uniti, ma in grado di competere sotto tutti gli aspetti. Un’Europa che doveva comprendere anche i paesi dell’est e ovviamente la Germania orientale, una scorciatoia per riunificare pacificamente la stessa Germania. Non era lontana dalla visione dell’Europa dall’Atlantico agli Urali che in quegli stessi anni andava vaticinando Charles de Gaulle, un progetto da costruire “passo dopo passo”. Scriveva Strauss: “L’America ha bisogno dell’Europa, non solo nel suo ruolo culturale come una moderna Grecia, ma come una seconda potenza indipendente al suo fianco”. Quanto alla Germania “ha bisogno dell’Europa più di ogni altro paese”, non in termini strumentali e mercantili, ma storici ed etici: “Abbiamo dato un contributo fatale alla dissoluzione e alla frattura della vecchia famiglia di stati europei, non c’è miglior forma di riparazione che contribuire a restaurare la famiglia europea”.
Ai bavaresi, satolli e consci della loro ricchezza, piacerebbe chiudere i valichi alpini, alzare i ponti sul Danubio e anche quelli sul Reno
Sia Theo Waigel sia Edmund Stoiber, i successori di Strauss, hanno condiviso il Gran disegno, anche se con meno enfasi e forza visionaria. Ma l’idea di una Europa federale costruita con tenacia e realismo, passo dopo passo appunto, era rimasta viva, fino ad accettare la rinuncia al marco che, al contrario di quel che sostengono in Italia i neo-populisti, in Germania è stata vissuta come una condanna, non come una liberazione. Nell’ottica autonomista dei politici bavaresi, gli Stati Uniti d’Europa avrebbero favorito un assetto basato meno sugli stati nazionali e più su macroregioni omogenee economicamente, anche se composte da lingue e popolazioni diverse. E’ la visione che in Italia è stata teorizzata da Gianfranco Miglio il quale aveva influenzato Umberto Bossi e la Lega Nord prima maniera.
Non è rimasto molto di tutto ciò nel dibattito politico odierno né in Baviera né in Italia. Le condizioni sono cambiate, certo, ma sono cambiati anche gli uomini. Non è più tempo di leader visionari, oggi prevalgono i distruttori rispetto ai costruttori, quelli che reagiscono non quelli che agiscono, tutt’al più gli “avvocati del popolo”, non leader che sfidano pregiudizi, luoghi comuni e privilegi acquisiti, ma politici che cercano il consenso fingendo di accontentare tutti. Ciò vale anche per la Baviera e gli zig zag di Seehofer ne sono la prova.