Uguali e diversity
Il declino dell’occidente si vede anche nei folli criteri di ammissione alle università Usa
E’ dei giorni scorsi una direttiva (guideline) dell’amministrazione Trump di ignorare l’etnia per le domande di ammissione alle università americane. Le ammissioni devono, secondo questa direttiva, essere, da ora in poi, “daltoniche” in quanto alla razza (race-blind). Nel 2011 e poi di nuovo nel 2013, sotto la presidenza Obama, in ben 23 documenti di guida, alle università e alle scuole veniva esplicitamente raccomandato di adottare criteri etnici “per raggiungere la diversità” nell’educazione e per evitare la “racial isolation”. Harvard ha subito controbattuto che continuerà, come in passato, ad adottare criteri etnici “per creare, nel campus, una comunità diversificata, nella quale studenti provenienti da ogni settore della vita avranno l’opportunità di imparare con altri e da altri”.
Bene, non si vede come un’amministrazione al vertice possa controllare se simili direttive sono, o non sono, seguite. Si dovrebbero riesaminare centinaia di migliaia di domande e di accettazione e le relative ammissioni, setacciandone i criteri. L’unica arma che, potenzialmente, l’amministrazione centrale dello stato ha a disposizione è quella di modulare l’elargizione alle università di fondi federali per insegnamento e ricerca. Certo non semplice.
Ancor più complesso sarebbe applicare simili direttive a un livello accademico più alto: quello delle nomine dei docenti. Da alcuni anni a questa parte la magica parola “diversity” impera. Vi sono, nelle università, vicepresidenti appositi, il cui compito è controllare lo sviluppo della diversità. Gli annunci di posti accademici devono rispettare requisiti di massima diffusione e di assoluta imparzialità. In qualche caso, un docente già selezionato e insediato, si è visto temporaneamente sospeso, perché si è ritenuto, ai massimi vertici dell’università, che l’annuncio non era stato diffuso abbastanza largamente. Spesso, ma non sempre, dopo una diffusione più ampia dell’annuncio, dopo aver fatto di nuovo domanda e aver passato di nuovo la trafila, il docente viene confermato definitivamente. L’assoluta imparzialità quanto a etnia, sesso e provenienza geografica viene sempre ribadita. In realtà le cose non vanno proprio così. Il dean del college spesso convoca il presidente o la presidentessa del comitato di selezione e in camera caritatis, senza che alcuna traccia ne resti, a voce, dice “non venitemi fuori con un uomo bianco”. Mi è stato riferito un buon numero di volte che, papale papale, questa raccomandazione del tutto non ufficiale (dioneliberi), ma vincolante, è stata profferita. Potrei, ma non lo farò, citare le istituzioni e le cattedre.
Mi limito a riportare un caso recente, un episodio cui ho personalmente partecipato. Un insigne cognitivista, i cui lavori da anni insegno nei miei corsi, offriva alla mia università, al mio dipartimento, per ragioni personali, un uovo d’oro. Cioè, per la miserrima somma di ventimila dollari all’anno, offriva di trascorrere un intero semestre da noi, insegnando, facendo ricerca, facendo da mentore agli studenti. Il consiglio di facoltà, di cui sono membro, dopo una breve e sommaria discussione, ha deciso di non accettare. Due professoresse hanno prontamente sentenziato: “Non abbiamo bisogno di un altro anziano uomo bianco” (an old white male). Dissentii vigorosamente, facendo presente che era un’occasione unica, non un job disponibile, da annunciare e dare, che so io, a una donna, un nero o quant’altro si voglia. Niente da fare, la maggioranza respinse quasi subito la proposta.
Una tendenza diffusa
Questa tendenza è impossibile da documentare, ma è ben reale e diffusa. Tra l’eccellenza e la diversità, spesso vince la seconda. Si noti bene, i candidati, le candidate numero due o tre raramente sono (come direbbero a Roma) delle sòle. Per arrivare alla terna o la quaterna dei candidati selezionati, le credenziali sono quasi sempre ottime. Ma spesso non è il numero uno a essere prescelto. Alla lunga, penso che il livello generale dell’insegnamento, della scienza e della ricerca in generale negli Stati Uniti finirà per risentirne. Senza tanti peli sulla lingua, Giappone, Cina, Corea del Sud e Singapore stanno perseguendo politiche accademiche aggressive, puntando sull’eccellenza. A un collega di grande spicco scientifico, che non starò a nominare, la sua università americana mette a disposizione, in comune con altri tre laboratori, una costosa apparecchiatura. Ha ricevuto dalla Cina un’offerta di alto salario, quella macchina tutta per sé e quattro posti per i suoi giovani collaboratori. Ci sta pensando.
La presente amministrazione Trump è tutt’altro che ben disposta quanto a scienza, ricerca e insegnamento. Circolano voci, che speriamo infondate, sulla privatizzazione degli imponenti National Institutes of Health (NIH), polmone principale, da molti decenni, della ricerca biomedica. Lo slogan “make America great again” pare dissociato dall’idea che istruzione, ricerca e nuove tecnologie sono, alla lunga, i principali fattori della grandezza. Studenti americani cominciano, in numero crescente, a iscriversi a università in Asia. Vengono accolti a braccia aperte, non per via della diversity, ma per accelerare la competizione con gli Stati Uniti. Da Spengler in poi, ripetutamente, si sente parlare del declino dell’occidente. Forse non è fuori luogo ripetere oggi il grido di allarme.
I conservatori inglesi