L'allargamento dell'Ue va bene, ma bisogna essere severi. Intervista a Bickl
Aprire le porte ai Balcani significa anche assumersi la responsabilità di accogliere i lasciti di una storia che non si è mai conclusa. Parla il professore dell'Università di Duisburg-Essen
Roma. La tentazione di un’Unione europea sempre più grande esiste ancora e nonostante le spinte centrifughe, le vocazioni sovraniste e gli attacchi euroscettici, ci sono ancora paesi per i quali entrare nell’Ue rappresenta un traguardo. Nel 2025 potrebbero entrare Serbia, Montenegro, Macedonia, Kosovo, Albania e Bosnia-Erzegovina, ognuno con le sue contese territoriali da risolvere e con i problemi di corruzione da regolare. L’Ue è disposta a elargire finanziamenti generosi per aiutare questi stati a ottenere i requisiti sufficienti per entrare in Europa. Ma forse è arrivato il momento di rendere l’acquisizione dello status di paese membro un po’ più difficile. Non è la fine del grande sogno di un’Unione in espansione, è una considerazione pratica che si basa sull’osservazione di quanto è successo in passato. “Romania e Bulgaria, entrate nel 2007, hanno ancora molti problemi legati alla corruzione e a norme che non rispettano lo stato di diritto”, spiega al Foglio Thomas Bickl, docente presso l’Università di Duisburg-Essen ed esperto di Balcani.
“Dal 2007 a oggi, l’Ue non ha mai smesso di monitorare questi paesi e questo rende più difficile un ulteriore allargamento a est. In molti ritengono che sia necessario prima risolvere le contese territoriali e i problemi economici”. Francia, Germania, Olanda e Danimarca, tra le nazioni più europeiste dell’Unione, sono anche le più scettiche riguardo all’allargamento. Questo scetticismo si è espresso con forza davanti a una raccomandazione che la Commissione europea ha presentato mercoledì al Parlamento e al Consiglio dell’Unione europea: liberalizzare i visti per i cittadini kosovari. Secondo la Commissione, il Kosovo avrebbe raggiunto due obiettivi importanti: ha risolto le questioni territoriali con il Montenegro e preso provvedimenti contro la corruzione e la criminalità organizzata. Traguardi da premiare, secondo la Commissione, rendendo ai kosovari più semplice l’accesso e la permanenza nei paesi membri, i quali però non sono del tutto convinti della bontà della manovra. “In Parlamento non c’è la stessa angolazione nazionale che c’è in Consiglio. In generale prevale una visione di sostegno, si tende a voler rendere più facile la vita ai paesi che desiderano entrare nell’Ue, a dar loro benefici, a fare in modo che i cittadini siano più liberi di muoversi e di fare affari. Per questo in Parlamento la maggioranza per la liberalizzazione dei visti c’è – spiega Bickl – Diversa è la situazione nel Consiglio dei ministri, dove prevale la prudenza. I paesi sanno che la liberalizzazione rappresenta un segnale politico, che potrebbe non essere accettato dall’opinione pubblica in patria, e ne temono anche gli abusi”. Le persone che viaggiano dal Kosovo in Europa possono rimanere fino a tre mesi, la liberalizzazione permetterebbe loro di rimanere più a lungo e sarebbero meno tracciabili. “Una delle più grandi sfide europee in questo periodo è l’immigrazione, liberalizzare i visti in questo momento è un tema delicato per la maggior parte dei paesi membri”. Non c’è un clima politico che permetta di elargire troppe concessioni a chi vuole entrare in Ue, in Consiglio emergono gli interessi nazionali, ci sono molte pressioni da parte dell’opinione pubblica che ovunque è interessata a contenere i flussi migratori, più che a perseguire il sogno di un’Europa sempre più numerosa.
Aprire le porte ai Balcani significa anche assumersi la responsabilità di accogliere i lasciti di una storia che non si è mai conclusa, di conflitti che non hanno mai cessato di aizzare l’odio tra le nazioni, dove le contese territoriali sono ancora al centro del dibattito. Nel 2025 vorrebbe entrare il Kosovo, stato-non-stato, che alcuni paesi europei – Slovacchia, Grecia, Spagna e Romania – non hanno ancora riconosciuto. Vorrebbe entrare la Serbia, che non riconosce il Kosovo come stato, e lo considera ancora come parte dei propri confini – Kosovo je Srbija, il Kosovo è Serbia, si legge per le strade belgradesi. L’Europa procede con cautela e non vuole che Belgrado e Pristina entrino prima di risolvere le loro contese. “Non è facile per la Serbia riconoscere il Kosovo – spiega l'esperto – Tuttavia non credo sia impossibile e questo dipende dall’impegno di Bruxelles e credo che Federica Mogherini sia in una buona posizione per dare più input”. Bickl invita l’alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri e la Sicurezza a continuare a essere attiva, a portare avanti gli incontri tra il presidente serbo Vucic e il premier kosovaro Haradinaj per discutere le priorità, trovare un accordo, offrire più collaborazione. Il riconoscimento del Kosovo, secondo il professore tedesco, dipenderà molto dalle garanzie che l’Unione riuscirà a offrire alla Serbia. L’ingresso di Belgrado però non convince tutti i paesi Ue, è uno stato molto legato alla Russia, il presidente serbo, Aleksandar Vucic, continua a dipendere molto da Vladimir Putin e lancia a Bruxelles messaggi contrastanti. “Noi siamo europeisti e filorussi”, aveva detto il primo ministro, Ana Brnabic, in un’intervista al Financial Times. Quasi un ossimoro, che non è detto, però, che non sia il giusto ritratto dell’opinione pubblica serba. “Credo che in Serbia ci sia un problema mediatico, in alcuni sondaggi ho visto che le persone sono convinte che sia la Russia più che l’Unione europea a fornire aiuti – spiega Thomas Bickl – E non è così”. E’ difficile che i serbi si trasformino in una nazione di europeisti se non hanno l’opportunità di apprezzare i benefici dell’Ue. “La stampa in Serbia è controllata dal governo e non dà la dimensione corretta degli sforzi che l’Europa sta facendo nel paese”. Fuori Londra e dentro i Balcani è una delle prospettive di Bruxelles, che ha deciso, forse, di diventare più severa. Non perché non creda più nel sogno di un’Unione sempre più vasta, ma perché dagli errori bisognerà pur imparare per non smettere di essere europeisti.