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Per una ciotola di noodles

Massimo Morello

La retorica delle due superpotenze, Usa e Cina, comincia a star stretta al resto del mondo

Edebbesi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini”. Questa citazione dal capitolo VI de “Il Principe” di Niccolò Machiavelli appare in apertura del nuovo libro, un pamphlet, di Kishore Mahbubani, “Has the West Lost It?” (“L’occidente ha perso?”). Per uno scherzo della Dea Nemesi, potrebbe ritorcersi contro la tesi espressa nella retorica domanda del titolo.

 

Studioso, ex diplomatico di Singapore, Mahbubani è un profeta degli “Asian Values”, i valori asiatici, contrapposti a quelli occidentali. La sola sintesi può verificarsi qualora l’occidente rinunci alla “universalità” dei suoi valori di democrazia e diritti umani: “I teorici occidentali della democrazia devono tornare alle loro lavagne per capire dove i processi democratici sono andati storti”. In questa “provocazione”, come recita il sottotitolo del libro, la contrapposizione diventa globale: tra il West e il Rest, il resto del mondo. In realtà, se il West trova il suo campione negli Stati Uniti, il Rest, solo all’apparenza è composto da tutte le nazioni non occidentali: è l’Asia a dominare la scena, con l’Africa e l’America Latina a far da comparse. E l’Asia è interpretata dalla Cina.

 

La sfida, secondo Mahbubani, è destinata a concludersi con il Tramonto dell’occidente. Tanto più dopo l’uscita degli Stati Uniti dal Tpp (Trans Pacific partnership), l’accordo multilaterale di libero scambio che deve essere ridisegnato dalle undici nazioni rimaste, cercando in Giappone un nuovo punto d’incontro. Non a caso, il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha sollecitato la definizione della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), accordo di libero scambio tra i dieci paesi dell’Asean (l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) più Australia, Cina, India, Giappone, Corea del sud e Nuova Zelanda. “Per fare fronte a un crescente protezionismo, tutti noi asiatici dobbiamo unirci: il nostro futuro sta nella nostra capacità di tenere alta la bandiera di un commercio libero ed equo”, ha dichiarato Abe.

 

Molti paesi del sud-est asiatico cominciano a diffidare degli aiuti cinesi: le vie della seta appaiono fili di una ragnatela cui è difficile sottrarsi

La contrapposizione è tra West e Rest. Da una parte l’America e i suoi alleati, dall’altra tutto il resto del mondo (a guida cinese?)

Nel frattempo, nel 2013, la Cina ha lanciato la Obor (One Belt One Road), il ciclopico progetto per sviluppare un’infrastruttura fisica ed economica in più di sessanta paesi d’Asia, Africa ed Europa. Nel 2016, per sostenere il progetto, ha creato la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), banca multilaterale di sviluppo con sede a Pechino che oggi opera in 86 paesi. Secondo il New York Times la Aiib conferma che “la Cina, con la forza delle sue ricchezze e risorse, oggi compete con gli Stati Uniti sul tavolo dell’economia globale”. In realtà, almeno per ora, la banca cinese ha concesso finanziamenti per circa 4,5 miliardi di dollari, otto volte in meno rispetto ai 36,6 della concorrente Asian Development Bank (Adb). Ma queste cifre, se sembrano ridurre l’impatto della Cina nell’economia globale, non tengono conto della dimensione temporale (la Adb è stata fondata nei 1966), che ha permesso un forte radicamento nel continente, né del fatto che la stessa Cina è tra i paesi membri dell’Adb. A sostegno della tesi panasiatica di Mahbubani, poi, va rilevato che la Adb è a guida giapponese.

 

Il reale concorrente dell’espansionismo asiatico dovrebbe essere il progetto di “Free and Open Indo-Pacific” (Foip), lanciato da Trump in occasione dell’Asia Pacific Economic Cooperation Forum organizzato in Vietnam nel 2017. Descritto da Trump, come “un luogo dove nazioni indipendenti e sovrane, con diverse culture e molti differenti sogni possono prosperare fianco a fianco”, il Foip è apparso come uno strumento per contenere o competere con la Cina con sistemi di difesa aerea e marittima. In altri termini: un pivot militare, che il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha definito “uno stratagemma per attirare l’attenzione, destinato però a dissolversi come la schiuma nell’Oceano Pacifico e Indiano”.

 

Nella schiuma di acronimi che maschera il confronto tra il West e un Rest col volto di Xi Jinping si cela la trappola di Machiavelli, la Nemesi che mette a rischio il nuovo ordine teorizzato da Mahbubani.

 

L’ultima cosa che le nazioni del sud-est asiatico vogliono è diventare nuovamente il campo di battaglia tra due superpotenze, mentre la mappa politica dell’area incarna una vertiginosa varietà di etnie, razze, nazionalismi e monarchie sfuggita alla presa di Pechino sin dall’epoca imperiale. E’ qui che si sta manifestando la rinascita di un mondo tribale, dove l’identità di gruppo, etnica, religiosa, settaria o di clan, diventa predominante. Secondo Amy Chua, docente alla Yale Law School, autrice del saggio “Political Tribes: Group Instinct and the Fate of Nations”, è l’identità tribale a segnare la fine di una storia che vede il mondo diviso in grandi fronti o valori, che siano capitalismo contro comunismo, autoritarismo contro democrazia. Oppure il West contro il Rest (e viceversa).

 

Simbolo della tribalizzazione, almeno nel sud-est asiatico, è un animale che per molti popoli era un totem: la tigre. E’ la tesi di Ravi Velloor, editorialista delllo Straits Times di Singapore. In un recente articolo Vellor prende spunto dalla necessità di proteggere questa specie, che aveva il suo habitat in sette nazioni dell’Asean, per conquistare spazio sulla scena politica e macro-economica asiatica, com’era accaduto col fenomeno delle “Tigri Asiatiche”, le economie emergenti negli anni Ottanta poi collassate con la crisi finanziaria asiatica del 1997-98.

 

Questo passaggio storico, che dovrebbe portare a un nuovo polo di sviluppo, sganciato dalle superpotenze, è sembrato materializzarsi a Bangkok a metà giugno nel Summit Acmecs. In questo caso l’acronimo indica la “Strategia di cooperazione economica Ayeyawady-Chao Phraya-Mekong”, ossia di quei paesi – Thailandia, Laos, Myanmar, Cambogia e Vietnam – attraversati dai tre fiumi. Il primo ministro thai Prayuth Chan-ocha ha annunciato la creazione di un fondo per progetti di sviluppo nella regione che dovrebbe fare da “pivot” tra la “One Belt One Road” e il “Free and Open Indo-Pacific”.

 

Il master plan quinquennale (2019-2023) sottoscritto dai leader dei paesi Acmecs è ambizioso: oltre all’“armonizzazione” dei commerci e delle regole finanziare e allo sviluppo delle risorse umane, prevede un piano d’investimenti in infrastrutture per 5 trilioni (5.000 miliardi) di dollari. Difficile capire chi e come finanzierà il tutto: i paesi dell’Amecs non hanno sufficienti risorse ed è per questo che il generale Prayuth ha proposto la creazione di un fondo aperto a istituzioni finanziarie internazionali, a partner privati, a governi asiatici ed europei. Soprattutto per lui è importante iniziare almeno qualcuno dei progetti e presentarsi alle prossime elezioni (previste per il 2019) come l’artefice di un nuovo boom economico, come chi ha riportato la Thailandia al centro della scena regionale. Prayuth conta molto sull’intervento della Asian Development Bank, che potrebbe approfittare dell’occasione per segnare altri punti nei confronti della Asian Infrastructure Investment Bank e marcare le differenze nei confronti della concorrente. “La Adb non guarda solo alle infrastrutture, per noi è centrale lo sviluppo umano”, dice al Foglio Ramesh Subramanian, direttore generale della Adb, in occasione del summit. “La Adb da sola non può creare le infrastrutture”, ribatte Supee Teravaninthorn, direttrice generale per le operazioni d’investimento della Aiib. “E’ una win win situation: collaborazione nella competizione”, dice questa gentile signora thai che ormai appare del tutto sinizzata.

 

“Con quello che accade nello scenario globale dobbiamo cooperare. La stessa vicenda del Tpp dimostra quello che abbiamo sempre sostenuto: promuovere gli sviluppi regionali”, concorda il direttore della Adb, che condivide il senso panasiatico della collega, pur spostandone il baricentro in Giappone. Per entrambi, insomma, l’Acmecs potrebbe rivelarsi una buona occasione per creare una nuova “noodle bowl”, una ciotola di noodle, come la chiama Subramanian, riferendosi al piatto che accomuna le nazioni dell’Asia orientale.

 

Lo scopo di questa iniziativa, tuttavia, sembra più profondo. “La crescente dipendenza dalla Cina è un grosso problema per l’Asean”, ha detto Prapat Thepchatree, professore di Scienze politiche alla Thammasat University di Bangkok. “Il Myanmar, il Laos, la Cambogia hanno fatto molto affidamento sugli investimenti e sul commercio con la Cina, ma questo ha avuto forti conseguenze sulla loro libertà economica”. Il Laos e la Cambogia, in particolare, hanno pagato a caro prezzo l’aiuto del Grande Fratello: concessioni di terre, di zone economiche speciali, permessi per la costruzione di dighe sul Mekong che minacciano sia l’ecosistema sia l’agricoltura.

 

Come ha recentemente notato la direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde, alcuni progetti della Obor a lungo termine possono far cadere i paesi che ne beneficiano nella trappola del debito: possono pagarlo solo con pesantissime concessioni. Ne è esempio lo Sri Lanka, che ha dovuto cedere alla Cina per novantanove anni lo strategico porto di Hambantota.

 

Ormai molti paesi del sud-est asiatico cominciano a diffidare degli aiuti cinesi: le nuove vie della seta appaiono come fili di una ragnatela cui è difficile sottrarsi. Lo dimostra il controllo operato dal Plan, la marina dell’Esercito popolare di liberazione (a breve armata con tre portaerei) sul Mar della Cina meridionale. Gli atolli trasformati in basi aeree e navali sono avamposti di una politica espansionistica che tende a eliminare ogni influenza esterna dal Pacifico occidentale (operazione che Trump ha facilitato nel Summit di Singapore con l’annullamento delle manovre militari nel Mar Giallo).

 

La seconda fase di questa politica, secondo molti osservatori, è il controllo della regione del Mekong. “Riguardo il sud-est asiatico continentale, com’è accaduto nel Mar della Cina meridionale, la Cina propone le sue regole”, scrive Thitinan Pongsudhirak, direttore dell’Institute of Security and International Studies di Bangkok. Lo fa marginalizzando organizzazioni già esistenti e finanziandone nuove sotto il suo controllo, facilitata dal ritiro di Trump dal Tpp. E così l’Asean si ritrova soverchiata dalla Cina. Tanto più guardando al fronte opposto. Il Foip, il trumpiano “Free and Open Indo-Pacific”, pone altre sfide all’Asean, fa sentire emarginate le sue nazioni. Secondo Pongsudhirak lo stesso termine “Indo-Pacific” indica “uno spostamento gravitazionale nel sud dell’Asia”.

 

Ecco perché i fiumi dell’Acmecs sembrano comunque scorrere verso nord. In un modo o nell’altro i progetti di questa cooperazione economica si ricollegano a quelli della Obor e difficilmente potranno fare a meno dei finanziamenti di Pechino. Lo stesso premier Thai, in una recente intervista rilasciata al Time, riafferma la supremazia della Cina nei rapporti col suo paese. E ancora una volta la responsabilità ricade sulla superficialità della nuova politica estera americana. Il primo ministro thai, infatti, si rivela un osservatore più acuto di Trump: non si lascia incantare dalle banali considerazioni del presidente sulle bellezze della Thailandia, e si limita a dire che “potrebbe riservare maggior attenzione all’Asean”.

 

Eppure, proprio in conseguenza della politica americana, il sud-est asiatico comincia a pensare che non può più affidarsi all’equilibrismo tra i blocchi, e che l’alternativa non può essere quella di diventare una sorta di protettorato dell’Impero di Mezzo, una frazione del “Rest”.

 

Come dimostra il tentativo dell’Acmecs, si potrebbe riproporre qui quel movimento dei paesi non allineati formatosi negli anni Cinquanta per contrapporsi alla logica dei blocchi. L’Asean, insomma, ha cominciato a prendere coscienza della propria “debolezza” e cerca di trasformarla in forza da contrapporre ai “nuovi ordini”.

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