Liel Levitan

Niente Mondiale di scacchi per quella campionessa. “Sei israeliana”

Giulio Meotti

Liel Levitan, sette anni, e la vera apartheid in medio oriente

Roma. Liel Levitan viene da una famiglia di grandi scacchisti e a quattro anni ha iniziato a cimentarsi in questa disciplina. Liel si è da poco imposta nei campionati europei a Cracovia, cui hanno partecipato diverse centinaia di studenti di scuola elementare. Al termine della premiazione, Liel ha dichiarato: “Amo gli scacchi. Penso sia un gioco per tutte le età, non solo per gli adulti. Il mio sogno è diventare campionessa del mondo”.

 

 

Dal primo al nove di settembre, Liel avrebbe dovuto partecipare al Campionato del mondo di scacchi, in programma a Monastir, in Tunisia. Avrebbe... Perché Liel non potrà partecipare, essendo una cittadina israeliana. Dallo stato arabo, il più moderato e che ha avuto maggior successo nella stagione delle primavere arabe, è arrivato un netto rifiuto: “Non vogliamo scacchisti israeliani in gara”. E vale la pena ricordare che Beersheba, nel sud di Israele, è la capitale mondiale degli scacchisti, la città con la più alta percentuale pro capite di campioni.

 

La Federazione internazionale di judo aveva cercato di spingere la Tunisia a cambiare idea, sospendendo il Gran prix di judo di Tunisi una settimana fa. Ma neppure questo ha modificato l’atteggiamento delle autorità tunisine. “Solo qualche mese fa, il Campionato mondiale di scacchi si sarebbe dovuto tenere in Arabia Saudita, ma era chiaro a tutti che gli eccezionali giocatori di scacchi israeliani non avrebbero avuto modo di partecipare alla competizione”, ha dichiarato Lior Aizenberg, giocatore di scacchi israeliano.

 

E prima ci sono stati altri casi eclatanti. Il judoka egiziano che, a Rio 2016, non ha stretto la mano al suo avversario israeliano che l’ha appena sconfitto, e i judoka israeliani che, protagonisti un anno fa in un torneo ad Abu Dhabi, furono costretti a cantarsi l’inno da soli. Ieri ha giustamente detto Piero Fassino, vicepresidente della commissione Esteri della Camera, che “l’odio antisemita impedisce a una bambina di sette anni, perché israeliana, di partecipare ai Mondiali di scacchi” e che “così si comportavano i nazisti”. Una settimana fa, dopo l’approvazione della legge israeliana sullo stato-nazione, molti giornali europei hanno gridato alla “apartheid”, facendo da cassa di risonanza delle rivendicazioni dei deputati arabi del Parlamento di Gerusalemme. Oggi, quasi tutti gli stati arabi non vietano più l’ingresso degli ebrei in quanto tali come accadde a lungo dopo il 1948. Ma quasi tutti continuano a vietare l’ingresso ai cittadini israeliani. Sei dei sette stati che compaiono nell’ordine esecutivo di Trump (Iran, Iraq, Libia, Sudan, Siria e Yemen) vietano l’ingresso a qualunque titolare di passaporto israeliano, così come fanno altri dieci paesi a maggioranza musulmana.

 

Non solo. Molti di questi paesi non ammettono l’ingresso di cittadini non israeliani che abbiano sul passaporto un visto israeliano. Non risulta che la comunità internazionale abbia mai considerato questo comportamento come un oltraggio particolarmente clamoroso alle leggi internazionali. Né che i giornali abbiano urlato alla “apartheid”, che colpisce anche quegli scrittori arabi che hanno osato mettere piede in Israele, dall’algerino Boualem Sansal al siriano Adonis, passando per l’egiziano Ali Salem. Lo scorso settembre, il regista libanese Ziad Doueiri, dopo avere assistito alla premiazione al Festival del Cinema di Venezia di Kamel El Basha come migliore attore protagonista del film “L’insulto”, tornato a Beirut, venne arrestato per tre ore dal tribunale militare, accusato di “collaborazionismo con Israele”. Aveva girato alcune scene in territorio israeliano.

 

Il produttore cinematografico tunisino Saïd Ben Saïd, invece, ha dovuto rinunciare alla direzione del Festival del cinema di Cartagine, in Tunisia. La sua “colpa”? Essere un membro della giuria del Festival del cinema di Gerusalemme. Ma di questa che è la sola, unica “apartheid” in medio oriente, quella del mondo arabo-islamico ai danni degli israeliani, non si dice niente.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.