Nostalgia di Obama
Jon Favreau, l’enfant prodige che scriveva i suoi discorsi, è tornato in campo. Oggi fa parlare i podcast, per ridare forza ai democratici
Il morbo della nostalgia obamiana è in circolo. Un fenomeno da sistematizzare, tanto è stato brutale lo choc del ricambio Barack-Trump. Ma in fondo ancora oggi basta un’apparizione in una cafeteria dell’ex presidente e dell’eterno e fedele vice Biden, per risvegliare tsunami di demo-malinconia passatista. E questa, se ci mettiamo nelle scarpe dei progressisti, è la strada più sbagliata e pericolosa da imboccare. Perché Obama (per non parlare di Biden) è storia. E qui c’è un disastro politico da arginare e un’elezione del medio termine distante meno di 100 giorni, dove provare a raccogliere qualcosa di diverso da un’altra inguardabile batosta. Eppure l’arena democratica è divisa, sbiadita, priva di leadership e di coordinamento, somiglia a un esercito alla deriva e in dismissione, privo delle armi utili e delle motivazioni giuste, che pure sarebbero là esposte, in bella vista, disponibili allo sguardo di chiunque abbia voglia di menare le mani.
Nel 2006 Obama lo sceglie dopo una conversazione a quattr’occhi. Lui è animato da una specie di erotismo per la frase perfetta
A questo punto facciamo entrare in scena Jonathan Favreau, più noto come Jon ma per gli amici solo “Favs”. Ha 37 anni e un luminoso passato ormai decisamente alle spalle. Tipico prodotto middle class del New England, appena laureato, a 23 anni, aitante e di belle speranze, andò a lavorare per la campagna presidenziale di John Kerry, come aspirante estensore dei discorsi del candidato. La spedizione fu un fallimento e Kerry finì a gambe all’aria, ma nel corso della convention democratica dell’estate 2004 Favreau, nel retropalco del Fleet Center di Boston, s’imbatté nell’uomo che gli avrebbe cambiato la vita, ovvero quel giovane e ancora titubante candidato al Senato per lo Stato dell’Illinois di cui tutti già parlavano come della migliore speranza del partito, non fosse per quel nome buffo e vagamente sinistro di Barack Obama. Favreau aveva ascoltato le prove del discorso di Obama e aveva notato alcune sovrapposizioni con quello che aveva contribuito a scrivere per Kerry. Dal momento che il suo capo era la star dell’evento, consigliò Obama di rimettere mano al copione e apportare le necessarie correzioni.
Passano due anni. Nel 2006 Favreau ha già scalato parecchie posizioni e a soli 25 anni è l’enfant prodige titolare dei discorsi di quel candidato democratico alla presidenza Barack Obama che sta incendiando l’America. E’ stato scelto dopo una conversazione a quattr’occhi. Jon ha convinto Barack con la sua visione di cosa dev’essere un buon discorso: il modo per allargare la base delle persone interessate all’argomento che proponi loro. Una dinamo emotiva, in sostanza. E presto il sodalizio tra i due si rafforza esponenzialmente: Obama nelle interviste dichiara che Favreau gli legge nel pensiero, capace di dare consistenza retorica e valore comunicativo alle idee che lui ha in testa. Jon si dimostra un workaholic ossessivo, animato da una specie di erotismo per la frase perfetta, la variazione a effetto, la coloritura inattesa. Ai tavoli degli Starbucks di mezza America verga i sermoni con cui Obama strega la nazione. E così nel 2009 Favreau entra alla Casa Bianca con la carica di direttore della squadra di scrittura del presidente, mentre affina la propria arte ormai celebrata, considerato a sua volta una star del nuovo che avanza. Lui viviseziona instancabilmente le migliori parole presidenziali mai pronunciate, dai Kennedy, ai capolavori che Peggy Noonan scrisse per Ronald Reagan e mette la sua firma invisibile sotto il memorabile discorso con cui nel gennaio 2009 Obama inaugura la prima presidenza, rendendo plastici, convincenti e commoventi i concetti a cui il neoeletto intende improntare il proprio mandato. Già nel 2013 però Favreau lascia la scena politica: ha 32 anni, ormai è un divo mediatico, tutti, con la stampa ai suoi piedi, da Time a People, a decretare la vertiginosa parabola del suo successo. Jon vuole andare oltre perché sente di potercela fare e perché sa di poter guadagnare molto più dei 172 mila dollari lordi che l’ufficio da scribacchino presidenziale gli ha garantito fino ad allora. Raduna la squadra e la scioglie: mezza dozzina di ex ragazzi talentuosi come lui, accomunati dal gusto college dell’informalità e dell’erudizione, un brat pack 2.0 di cui inspiegabilmente la Silicon Valley continua a disinteressarsi. Poi con Tommy Vietor (ex portavoce del National Security Council) fonda la Fenway Strategie, una company specializzata in consulenze nel settore comunicazione. Apparentemente una macchina da lobby e da quattrini anche se le cose vanno bene, ma non benissimo. L’aura di Favreau, una volta uscito dalla magica orbita obamiana, un pochino si appanna: si sa, il tempo passa, le cose cambiano, il secondo mandato di Barack volge al termine, e già Hillary sembra cavalcare una campagna solida e affidabile, sebbene con uno stile del tutto diverso da quello con cui Jon e i suoi avevano spedito Obama tra le stelle, dandogli i riflessi dell’uomo in missione per conto di Dio, della Nazione, della Giustizia, del Progresso e del Bene Collettivo – qualsiasi cosa fosse.
Un gioco rischioso: lavorando sul potere della parola, riscrivere lo stile della politica americana, quando il paese ha scelto i muscoli, i grugniti
Arriva il fatale giorno del novembre 2016: il terremoto, il crollo del tempio, la rivelazione di un’America che dalle silenti viscere nazionali salta su come un drago imbizzarrito e rovescia ogni credenza e ogni previsione. Il nuovo capo adesso è Donald Trump: per quanto la cosa appaia incredibile e nefasta agli occhi del giovane imprenditore Jon Favreau, ancora più dolorosa per lui dev’essere stata la sensazione che quel fatto storicizzava definitivamente ciò che aveva compiuto nei suoi luminosissimi vent’anni. Comunque, incassata la botta, bisogna ripartire e soprattutto capire da dove e in quale direzione. Nel gennaio 2017, mentre Trump giura in Campidoglio, Favreau, insieme al fidato amico Vietor e ad altri vecchi compari della Casa Bianca, come Jon Lovett (il “battutista” di Obama) e Dan Pfeiffer, (ex direttore della comunicazione presidenziale), fonda una nuova società: la Crooked Media – nomignolo snob che solo un dream team sicuro può partorire: Informazione Truccata – e comincia a sondare i territori della comunicazione ancora poco inesplorati, nei quali si rischia il superfluo, ma dove si possono piazzare colpi i cui effetti sono tutti da scoprire, sia nella dimensione imprenditoriale che in quella politica. Si sta parlando di podcast, ovvero di programmi audio consumabili on demand, facendo leva sul bisogno di consolazione, motivazione e di rivincita di cui si sentono intitolati milioni di elettori democratici, reduci dalla più clamorosa disfatta ideologica della vita. Se è vero che negli ultimi decenni la radio, e poi i podcast, sono stati una straordinaria arma di propaganda e compattamento per l’America conservatrice, è altrettanto un fatto che a sinistra, scomparse Air America (dove si formò Rachel Maddow) e la piattaforma Current di Al Gore (chiusa nel 2013), l’impatto on air è diventato praticamente nullo. Favs e i suoi ambiziosi amici, questa volta giocano in prima linea e ci mettono, se non la faccia, le voci e i cervelli: in palio c’è la conquista di un territorio semi-vergine, partendo dalla loro consumata verve, dal mestiere e dall’affiatamento messo a punto sotto Obama e con qualche idea in puro stile politicamente scorretto, come l’aria del post-Hillary reclamava: perciò un progetto apertamente partigiano, senza scrupoli di equilibrio e di pari opportunità, una produzione-specchio delle ubbie e degli istinti di risarcimento degli agonizzanti democratici sconfitti.
Se gente come Paul Harvery, Rush Limbaugh, O’Reilly e Sean Hannity aveva efficacemente solleticato appetiti e scazzi dei conservatori, il “Pod Save America” di Favreau e soci prova a rilanciare la messinscena: un gruppetto di liberal, delusi ma vogliosi di riscatto, chiacchierano instancabilmente, si stuzzicano e litigano sui temi del giorno e in particolare sulle malefatte del Grande Biondo, e con una raffica di ospiti provano a descrivere e a contrastare la nuova, inspiegabile deriva americana. Al posto dell’acredine bieca, venata di violenza repressa e di revanscismo di un Limbaugh, qui si punta sull’ironia, la battuta fulminante, il wit, l’ingegno che antepone l’autonomia analitica dell’individuo alla grigia disciplina di un Partito democratico ancora fuori dal ring. Più “Seinfeld” che “Taxi Driver”, più perfidia rispetto al fioretto di un Letterman, l’occhio focalizzato a raccogliere l’eredità di Jon Stewart, che chiudendo il suo “Daily Show”, aveva lasciato orfani milioni di connazionali progressisti. Il bersaglio è grande come l’Hotel Ritz: Trump e l’America incolonnata dietro le sue rabberciate promesse. Prendendo le distanze dal disastro-Hillary e guardando a un futuro necessario: la ricostruzione della rappresentatività democratica.
Fa leva sul bisogno di consolazione e di rivincita di milioni di elettori democratici, reduci dalla più clamorosa disfatta ideologica
“Il podcast è nato dalla nostra amicizia e dalla chimica che ci lega”, spiegherà lo stesso Favreau. “Non abbiamo ambizioni politiche e diciamo ciò che ci passa per la testa”. E’ la teoria dell’“onesta partigianeria”: “Siamo espliciti: vogliamo sospingere la riconquista della Camera e del Senato da parte dei democratici, nonché delle poltrone di governatori e del controllo di più Stati possibili”. Se il “parlar chiaro” ha contribuito in modo determinante alla vittoria di Trump, secondo Favs può esistere un altro genere di parlar chiaro: divertente, elegantemente maleducato, acuto e attento a colpire certi gangli nevralgici dell’America d’oggi. Propaganda, ma con humour di qualità e atmosfere very cool: “Pod Tours America”, versione “live” del podcast, fa il tutto esaurito al Radio City Music Hall di New York, con un palco su cui ci sono solo quattro sedie e un’enorme immagine di George Washington con le cuffiette nelle orecchie. Di sicuro un messaggio esplicito e risonante per le inquietudini metropolitane – anche se meno efficace se si pensa all’America profonda dei rodei e dei gun show.
Appena Favreau ha gridato nel microfono il nome di Robert Mueller, l’ex capo dell’Fbi in rotta di collisione con Trump sulla questione delle ingerenze russe nell’elezione 2016, è scattata l’ovazione: “Siamo democratici e di parte. Ci basiamo su fatti comprovati, ma spingiamo apertamente i punti di vista liberal. Lo sanno tutti: siamo quelli di Obama”. Basta ascoltarli: bravi, provocatori, a tratti irritanti. Ma funziona: i conti della Crooked Media appaiono subito in ordine, se ogni episodio del podcast con Favreau, Lovett, Pfeiffer e Vietor genera utili pubblicitari per oltre 50 mila dollari, portando i guadagni della prima annata, con un centinaio di puntate – due a settimana – oltre i 5 milioni di dollari, con un milione e mezzo di ascoltatori di media, ovvero quanti ne totalizza Anderson Cooper su Cnn in prima serata. E la produzione della ditta si moltiplica, con altri podcast a tema: “Pod Save the People” che si occupa di giustizia sociale, “Pod Save the World” sulla politica internazionale, e infine l’asso nella manica di Jon Favreau, “The Wilderness”, che tradurremo liberamente “Terra desolata”.
“The Wilderness” è il progetto più griffato da Favs, quello più lucidamente allestito con un obbiettivo definito: influenzare l’elezione di medio termine di novembre e tentare il recupero di quei circa 900 seggi che il Partito democratico ha lasciato per strada a livello nazionale negli ultimi otto anni. In 15 episodi tematici Favreau tenta di risolvere l’enigma: perché l’America si è separata dagli ideali democratici? Come, il partito reso glamour e potente da Obama, può ritrovare lo spirito vincente, interpretando bisogni, desideri e turbamenti degli americani del 2018? Favreau gioca al motivatore: “C’è un sacco da imparare e una montagna di lavoro da fare”.
All’inizio del primo podcast c’è un blob audio dei recenti orrori trumpiani: il veto all’ingresso dei musulmani, l’atteggiamento salomonico dopo i riot razzisti di Charlottesville (“brava gente da entrambe le parti”), lo sconcertante show di Parigi, in occasione del vertice sul cambiamento climatico, la separazione forzata bambini-genitori clandestini, la guerra dei dazi. Entra la voce di Favreau: “Se pensi che adesso siamo fottuti, prova a pensare come peggioreranno le cose se riperdiamo nel 2018 o, dio ci aiuti, nel 2020!”, ovvero se Trump guadagna la probabile riconferma alla Casa Bianca. I primi episodi di “The Wilderness” ricostruiscono la storia del Partito democratico, dalle orgini a FDR, ai Kennedy, ai Clinton, a Obama: eguaglianza, razza, progresso, economie dinamiche ma misurate. Negli episodi successivi, il focus si stringe sulla scottante questione-razza: “Ho imparato da Obama: ogni mattina la storia ci sottopone un nuovo scenario. E’ con esso che ci dobbiamo misurare”. E allora “razza” nel lessico dell’America progressista del presente è sinonimo di emergenza, ma lo è anche nel lessico trumpiano, per ragioni quasi diametralmente opposte.
Fa squadra con un gruppo di ex ragazzi terribili della Casa Bianca. Bravi, provocatori, a tratti irritanti. Ma funziona
“The Wilderness” è concepito in grande stile e con ampiezza di mezzi: gli interventi si contano a dozzine e sono autorevoli, il montaggio è cinematografico e curatissimo, nulla è lasciato al caso per raggiungere il bersaglio. Del resto l’avvento di Trump per reazione ha moltiplicato i podcast di resistenza alla sua visione del mondo. Ora ce ne sono migliaia, ma c’è da dubitare che scuotano davvero la nazione. Favreau però ha cercato di produrre il salto di qualità: “Credo che Trump abbia svegliato un gigante dormiente: la gente ora deve capire che la democrazia non è gratis. E comunque sono convinto che questa presidenza stia restituendo energia al Partito democratico.” A fine settembre tutti gli episodi del “Wilderness” saranno disponibili al consumo delle orecchie e dei cervelli americani. Mancherà poco al momento della verità: quanto è cambiata la nazione dagli anni in cui un presidente nero predicava l’empatia nazionale e la condivisione? Le sue parole si sono disperse nel vento? E quanto l’operato di questi suoi discepoli può incappare nel principale pericolo del progressismo: la tentazione elitaria, la pratica di un intellettualismo della parola che rende nervosi coloro che preferiscono i silenzi e le azioni, perfino quelle apparentemente prive di logica? Dalla base operativa losangelina (guarda caso…), affacciata su La Cieniga, la strada degli artisti di Hollywood, gli ex primi della classe di Obama cercano il ricollocamento del loro talento. Se gli andasse male, a due passi da lì operano gli studios, pronti a garantirgli ricchi emolumenti. Ma adesso il gioco della politica li ha di nuovo soggiogati. Favreau e i suoi si sentono pionieri di una nuova comunicazione d’impegno, che tenga conto di molte mediazioni: col mondo dello spettacolo, con l’universo social, con l’avvento del messaggio istantaneo, ma anche con la nostalgia per il cameratismo da bar, con il confortante riconoscimento di quelli che la pensano come te, con il gusto per l’attivismo. E’ un gioco sofisticato e rischioso: lavorando sul potere della parola, rendendola accessibile e stimolante, riscrivere lo stile della politica americana, nella stagione in cui il paese ha scelto i muscoli, i grugniti, le lettere maiuscole.
Favreau invoca una ritrovata energia di base, che adesso però è più difficile da canalizzare che nel 2008. Anche se c’è una carta che questi giovanotti potrebbero giocarsi: la telefonata al vecchio capo. E al suo aiutante di campo. I due pensionati che girano per i diner di Washington, generando agnizioni e accolti come liberatori. Certo, se i due decidessero che anche per loro è arrivato il momento di dire la propria senza fronzoli, dai microfoni di una radio on demand, le prospettive cambierebbero. Quelli, ancor più degli ex ragazzi terribili, sanno come motivare. Sanno che con una squadra giusta e una tattica appropriata, si fa piazza pulita. Sanno che “si può fare”.