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Così in Bangladesh un incidente stradale è diventato un caso politico

Giulia Pompili

Gli studenti da dieci giorni in piazza per la sicurezza

Roma. Inizia quasi sempre tutto dagli studenti. Anche i più piccoli. Da dieci giorni decine di migliaia di ragazzini più o meno adulti si ritrovano nelle strade di Dacca, la capitale del Bangladesh, per protestare contro quello che noi chiameremmo un omicidio stradale. I giovani bangladeshi sono arrabbiati con gli adulti, incapaci di rendere vivibili le strade del paese: secondo le stime, ci sono cinquemila pedoni ammazzati ogni anno, 12 mila persone muoiono perché coinvolti in incidenti stradali. Dacca in particolare è un inferno di traffico, dove l’unica regola è quella della strada: “Autisti senza patente, veicoli non registrati e autobus che corrono oltre i limiti sono la normalità, la corruzione della polizia è diffusa e il controllo del traffico pressoché inesistente”, si legge sull’Associated Press. Come spesso accade, quando decine di migliaia di ragazzi scendono in piazza, il problema diventa politico. E infatti col passare dei giorni quelle proteste hanno assunto un significato più ampio, e si sono trasformate in qualcosa di più grande.

 

Andiamo con ordine. Alla fine di luglio due ragazzi, Diya Khanam Mim di diciassette anni e Abdul Karim Rajib di diciotto anni, sono stati uccisi alla fermata di un autobus mentre aspettavano la loro corsa per andare a casa. L’incidente è stato provocato da due mezzi che hanno accelerato quasi contemporaneamente per arrivare prima alla fermata e massimizzare i guadagni. Altre dieci persone sono rimaste ferite. Secondo la stampa locale, la situazione dei mezzi di trasporto di Dacca è insostenibile. Il padre di Mim, Jahangir Fakir, che è lui stesso un autista, ha detto al Daily Star: “Mia figlia sognava di diventare un banchiere. Abbiamo fatto del nostro meglio per aiutarla a realizzare il suo sogno, ma tutte le nostre speranze ora si sono spezzate”. Secondo il quotidiano bangladeshi, i proprietari delle compagnie di trasporto attribuiscono la colpa alla concorrenza sleale, e vista la riduzione delle corse per via del traffico intenso, i proprietari affittano i mezzi a guidatori che pensano solo ai profitti, non certo alla sicurezza.

 

Per questo, dopo che la notizia della morte dei due ragazzi si è diffusa, gli studenti dello Shaheed Ramiz Uddin Cantonment College di Dacca sono scesi per strada. Con il passare dei giorni i cortei sono diventati sempre più numerosi, e qualcuno ha protestato com’è tipico dei giovani: con tutta la rabbia possibile. C’è chi ha danneggiato automobili e veicoli, perfino l’auto dell’ambasciatrice americana a Dacca, Marcia Bernicat, è stata attaccata, senza alcuna conseguenza. La Bernicat ha poi detto che l’opera di qualche facinoroso non può e non deve mettere in ombra le proteste di chi “ha pacificamente esercitato i propri diritti democratici per difendere un Bangladesh più sicuro”. Ed eccola, dunque, la politica: quasi subito la polizia ha iniziato a essere violenta con i manifestanti, molto violenta. Ci sono fotografie e video online che mostrano il pugno duro delle Forze dell’ordine contro ragazzi che l’ordine lo volevano prima, nella vita quotidiana. Le morti di quattro manifestanti non sono state confermate, e nemmeno la violenza subita da alcune studentesse durante i cortei – e ieri però circolavano sui social network le immagini delle studentesse in corteo, circondate dagli studenti maschi in divisa, che si tengono per mano, come una catena umana a proteggerle. Sono intervenute le Nazioni Unite chiedendo al governo di rispettare l’ordine democratico, soprattutto dopo l’arresto del famoso fotografo Shahidul Alam che stava seguendo le proteste. Il primo ministro Sheikh Hasina, che deve affrontare le elezioni generali a dicembre, si è affrettata ad appoggiare una legge per dare la pena di morte a chi compie omicidi stradali. Non avendo capito nulla, evidentemente, di quello che chiedono i suoi studenti.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.