La sindrome del comizio di Trump
Per non danneggiare il partito, il presidente deve defilarsi dal midterm
Cambridge, Massachusetts. Donald Trump giura che al suo passaggio si scatena la “gigantesca onda rossa”, la valanga di consensi per il Partito repubblicano che a novembre dovrebbe travolgere il midterm. I candidati per cui il presidente si è mosso in prima persona hanno rovesciato percentuali e smentito pronostici, implicita dimostrazione che Trump non ha perso il tocco magico e nel suo habitat naturale, quello della campagna elettorale, la capacità di elettrizzare la base è ancora intatta. E’ stato il suo intervento in Ohio, ne è certo, a permettere a Troy Balderson di reggere, a malapena, in un distretto di specchiata fede conservatrice, pessima performance elettorale che lui è riuscito a rivendere come grande successo. In quell’occasione, ha infiammato la folla con slogan tipo “preferirei essere russo che democratico”. Trump lo ha teorizzato: “Fin quando farò campagna e/o sosterrò candidati per la Camera e il Senato (entro i limiti della ragione), vinceranno”. Quali esattamente siano i limiti della ragione non è dato sapere.
Nel format del comizio, dell’adunata urlante, luoghi di eccitazione collettiva in cui i nemici del popolo, cioè i cronisti, devono ormai presentarsi con guardie del corpo e servizi di sicurezza, Trump dà il meglio di sé. Ha punteggiato il suo anno e mezzo abbondante di presidenza di rally di stampo elettorale nelle sue roccaforti per continuare a tenere desti gli ultrà del trumpismo, e in vista delle complicate elezioni di medio termine è convinto che l’unica strategia efficace sia quella di essere presente in prima persona il più possibile, al centro dell’agone. Ha già detto che toglierà tempo ed energie ai dossier internazionali più scottanti per aiutare i candidati repubblicani in difficoltà. Del resto, è stato trasformando i palazzetti in brulicanti teatri dei baccanali dell’America bianca che ha conquistato la Casa Bianca.
Collaboratori e strateghi elettorali si domandano però se l’iperattivismo del presidente sia un propulsore o una zavorra per un partito che affronta elezioni che, tutto sommato, hanno carattere locale. Le singole corse si giocano nei distretti e negli stati, non sulla scena nazionale. La lezione che arriva dall’Ohio suggerisce che la presenza nell’arena di Trump è più che altro d’impiccio e perfino di danno, come ha spiegato il Wall Street Journal in un editoriale sulla “illusione dell’onda rossa”. Al momento, le possibilità del Gop di mantenere la Camera sono molto basse, e l’unico modo per farle crescere è convincere quella fetta di conservatori che non sopportano il presidente a rientrare nei ranghi. I delusi, i tiepidi, i disillusi e i più malleabili fra i nevertrumper sono al centro delle attenzioni del partito. I sondaggisti di Tarrance Group dicono che il 33 per cento degli elettori conservatori è fedele a Trump, e a novembre lo voterà comunque. Un 11 per cento nutre molte perplessità sulla figura di Trump, ma antepone all’antipatia le posizioni politiche che invece condivide. C’è poi un dieci per cento di elettori che concorda con le sue scelte, ma disprezza a tal punto il presidente, a livello personale, che non se la sente di votarlo. “Quest’ultimo gruppo – scrive il Wall Street Journal – sono gli swing voters di cui il partito ha bisogno nei distretti suburbani per mantenere la Camera”. L’onnipresenza di Trump nell’arena elettorale è fumo negli occhi per questo bacino che ha bisogno di scollegare il midterm dal volto presidenziale, non di trasformarlo in un referendum. L’analisi del voto dell’Ohio dice che in questo distretto ultrarepubblicano sono venuti a mancare proprio i voti dei conservatori suburbani, che non sono riusciti a presentarsi al seggio nemmeno turandosi il naso. E così qualcuno nell’entourage del presidente inizia timidamente a suggerire che forse le corse locali è bene che rimangano tali, e che portare l’ingombrante presenza ovunque ha più l’effetto di rinfocolare l’odio dei democratici che di riaccendere l’amore dei repubblicani.