I fondi di coesione europei non sono un antidoto al populismo
Bruxelles ha speso mille miliardi per unificare il suo territorio. I meno europeisti sono i paesi che hanno avuto di più
Roma. Non è questione di soldi. Quella tra Unione europea e il gruppo di Visegrád è una storia di pragmatismo, una vicenda amara che racconta di un amore mai sbocciato. In un articolo pubblicato ieri, il Wall Street Journal scrive che l’Ue per riunificare il suo territorio ha speso quasi mille miliardi di dollari, otto volte la cifra prevista dal piano Marshall per ricostruire l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Bruxelles ha deciso di aiutare i paesi membri, ha costruito aeroporti e stazioni laddove mancavano le vie di comunicazione, ha realizzato strade dove esistevano solo percorsi dissestati di ghiaia. Dove la storia stava per scomparire ha restaurato monumenti e chiese. Insomma ha creato un patrimonio, soprattutto per quei paesi che oggi minacciano di andarsene dall’Unione. Polonia e Ungheria, baluardi del sovranismo est-europeo, nel 2017 hanno ricevuto dall’Ue rispettivamente 11 e 4 miliardi di euro e, per contribuire al budget europeo hanno versato 3 miliardi e 900 milioni.
Per aver un termine di paragone basti guardare alla Germania, che assieme all’Italia, alla Francia e alla Spagna è tra i contributori netti, ne versa 23 miliardi e ne riceve soltanto 10. Bruxelles, che ha rimesso a nuovo l’Europa dell’est, finanziando anche la costruzione delle università – quelle polacche sono tra le migliori d’Europa – non è riuscita a far innamorare questi paesi, perché, evidentemente, non è questione di soldi. Attraverso i fondi di coesione, l’Ue aveva l’ambizione di riunificare il territorio, fare in modo che ogni nazione, anche quelle che partivano da una condizione più svantaggiata, come la Polonia, potessero godere del tenore di vita e delle possibilità dei paesi che erano riusciti a raggiungere prima uno standard di vita alto. E’ senza dubbio riuscita nell’intento: ha alleviato la povertà, aperto nuovi mercati, ma non ha comprato l’amore di nazioni che oggi si dicono più insoddisfatte che grate.
Il populismo, il sovranismo e l’euroscetticismo crescono proprio nei posti che hanno avuto e continuano ad avere di più dall’Unione. Non accade solo nella zona di Visegrád, anche in Francia, dove la regione che ha beneficiato di più dei fondi di coesione è Nord-Pas-de-Calais, vecchia roccaforte del settore industriale del carbone e dell’acciaio che nelle ultime elezioni ha votato per Marine Le Pen, leader dell’ex Front National, oggi Rassemblement. L’insoddisfazione, il fastidio nei confronti dell’Europa derivano in parte dalla crisi economica che ha colpito principalmente i paesi occidentali, dove i finanziamenti Ue non sono riusciti a mitigare le perdite, ma è soprattutto una questione identitaria per quel che riguarda l’est.
Il Wsj ritrae un piccolo paese della Polonia nord-orientale, Lapy, dove l’Ue ha ricostruito tutto: asili, strade, piscine. Eppure il sindaco, Urszula Jablonka, alla domanda dei giornalisti che le chiedevano se, in un referendum simile alla Brexit ma riguardante la permanenza della Polonia nell’Unione europea, avrebbe votato per il leave o per il remain, lei non ha avuto tentennamenti. Ha spiegato che non è una decisione semplice da prendere ma che il primo elemento da considerare sono i valori nazionali. Ed è qui che l’Unione ha fallito. Per i paesi di Visegrád, ai quali l’Ue ha dato tutto, l’arrivo di Bruxelles ha spinto la popolazione ad allontanarsi dai valori tradizionali e ha impoverito i piccoli imprenditori.
A Lapy, una città di sedicimila abitanti circondata da campi di barbabietole, nel 2003 più della metà dei residenti aveva votato per entrare nell’Unione europea. Ma nella zona, l’assistenza di Bruxelles non è riuscita del tutto a compensare gli sconvolgimenti economici seguiti al crollo del comunismo. Nel 2008 l’antica fabbrica di zucchero dove lavoravano più di 250 persone ha chiuso, un intero sistema è andato in crisi, sono arrivati i supermercati di catene straniere: Tesco, Carrefour, a scapito dei commercianti locali. Poi è arrivata la chiesa cattolica, fortissima in Polonia, che ha iniziato a mettere in dubbio che l’Europa potesse condividere gli stessi valori, anzi secondo alcuni religiosi l’Ue era una minaccia.
Eppure, secondo i sondaggi i polacchi non hanno intenzione di uscire dall’Ue. Non sono innamorati di Bruxelles, non sono disposti ad assumersi le responsabilità dell’essere paesi comunitari, come l’obbligo di accogliere migranti, ma sanno bene che i vantaggi ci sono. Il PiS, il partito nazionalista al governo in Polonia, che prima delle elezioni del 2015 aveva portato avanti una campagna fortemente euroscettica e aveva vagheggiato la possibilità di un referendum per l’uscita dall’Ue, ci ha ripensato. Rimane un partito cattolico che biasima Bruxelles per la perdita dei valori, permane nazionalista e autarchico, contrario all’arrivo delle multinazionali in Polonia, eppure di lasciare l’Unione non ha nessuna intenzione.
Sa che conviene e lo sanno anche i polacchi. Non condividono i valori europei ma non vogliono rinunciare a quegli undici miliardi di euro l’anno, non vogliono rinunciare a Schengen, anche se dicono ancora di no all’euro. La storia tra Bruxelles e Visegrád è priva di amore ma è piena di pragmatismo. “Noi siamo un partito razionale – dice al Foglio un deputato del PiS – Non vogliamo certo lasciare l’Ue, perderemmo molti fondi che servono alle nostre infrastrutture. Uscire dall’Ue è un rischio e i polacchi la pensano come noi. Vogliamo però che Bruxelles ci lasci liberi di decidere su alcune questioni, prima tra tutte: l’immigrazione. E’ chiedere tanto?”. La permanenza nell’Ue è fatta di oneri e onori e in un momento in cui la Comunità chiede a tutti i paesi di farsi carico di un problema come l’immigrazione, il rifiuto delle quote da parte di Visegrád è un problema.
I progetti per l’Italia
Se dopo decenni di ottimismo europeo, i fondi di coesione non sono serviti a riunificare il territorio, Bruxelles inizia a farsi delle domande e nel prossimo budget settennale, che partirà dal 2021, i soldi destinati all’est potrebbero diminuire a favore dei paesi del Mediterraneo.
Decine di miliardi di euro in aiuti potrebbero essere trasferite dall’est al sud. Anche l’Italia ne beneficerebbe. “E’ un esercizio politico e non contabile”, ha detto Jean-Claude Juncker in aprile, contrario ai tagli dei fondi di coesione. Populismi e sovranismi prosperano nei paesi che dall’Ue hanno ricevuto più soldi. Ora Bruxelles si preoccupa per l’ondata populista nel nostro paese, forse l’Italia a partire dal 2021 riceverà più denaro, ma questo riuscirà a placare l’amore del paese per un governo antiestablishment ed euroscettico? Finora non ha funzionato.